Il cibo racconta? Il cibo si mangia, si degusta se si è benestanti, riempie lo stomaco se si è affamati, ma che cosa volete che racconti? Il cibo è cibo e basta, al più è gusto o buon gusto.
La Storia che ci hanno fatto studiare sin dalle elementari (pardon, dalla scuola primaria) è fatta di Re, talvolta di Regine, Imperi, battaglie, date, rivoluzioni, conquiste, lotte di religione, invasioni.
Nella Storia narrata, quella con la «S» maiuscola, cibo ed alimentazione entrano raramente e quasi sempre dalla finestra, come assenza di cibo, carestia.
Conosco l’obiezione che mi rivolgerebbe uno Storico: «il cibo non è Storia è Antropologia!» e se vi piacciono i dibattiti accademici potete chiarirvi le idee sul rapporto, tutt’ora irrisolto, tra Storia e Antropologia col bel saggio di Annalisa Di Nuzzo in «Fonti e risorse documentarie per una storia dell’industria delle paste alimentari in Italia».
Per mia (s)fortuna io non sono né uno Storico né un Antropologo e quindi posso esentarmi dal prendere posizione: spero non ne ne vorranno gli specialisti.
Il che non m’impedisce di intuire come un lavoro interdisciplinare come quello del CISPAI (il Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche sulla Storia delle Paste Alimentari) presieduto dal vulcanico Stefano D’Atri possa evolversi, nel suo rigore, in un approccio culturale capace di riscrivere la Storia del Paese o addirittura del Pianeta.
Gli esempi in cui il cibo è stato protagonista della Storia sono innumerevoli: è interessante riflettere, con alcune inevitabili semplificazioni, su qualcuno tra i più noti.
Cibo e antropizzazione
Quando pensiamo all’antropizzazione cioè all’intervento dell’uomo sull’ambiente naturale allo scopo di adattarlo, e quindi trasformarlo e alterarlo ai suoi interessi, la prima cosa che ci viene in mente è l’urbanizzazione. Nelle città e nei borghi riconosciamo la presenza umana, le sue tracce tangibili.
In realtà, tenendo presente che il 90% del suolo terrestre è praticamente disabitato, questa percezione è in gran parte indotta dalla concentrazione della popolazione mondiale: il 50% di essa vive infatti nel 2% della superficie terrestre.
La specie umana non è l’unica ad adattare l’ambiente alle proprie esigenze alimentari o di sopravvivenza, ma è sicuramente quella che storicamente lo ha fatto, e continua a farlo, sistematicamente ed intensamente.
La «colpa» è della nascita dell’agricoltura, e quindi del passaggio tra raccolta dei frutti spontanei della terra alla coltivazione e poi alla domesticazione animale, iniziato, per quanto riguarda l’Occidente, nella cosiddetta Mezzaluna fertile tra gli 8 ed i 10 mila anni fa, ed è l’agricoltura la responsabile, in una percentuale che oscilla tra l’80 ed il 90 per cento, della deforestazione.
Quale impatto possa aver avuto sull’ambiente il rapporto con il cibo lo possiamo percepire, depurata dall’edulcorata narrazione della «conquista del West», dalla velocità dell’antropizzazione del sub-continente nordamericano dopo l’arrivo degli europei.
Prima della colonizzazione europea, infatti, il rapporto tra le popolazioni, provenienti dal Nord dell’Asia, che avevano originariamente occupato quel territorio e la terra era improntato ad un impatto ridotto allo stretto necessario alla loro sopravvivenza. Piccola agricoltura, caccia, pesca, nomadismo, erano gli strumenti con cui si sostenevano: oggi diremmo che avevano un approccio ecologico al loro ambiente.
Quello che la narrazione dei colonizzatori occidentali ha definito «selvaggio» era un territorio in realtà già esplorato, percorso da più di 20 mila anni dai popoli che noi chiamiamo nativi americani e che lo avevano antropizzato solo in minima parte non per incapacità, ma per scelta.
In soli due secoli, e quindi in meno dell’1% del tempo di dominio di quelle terre da parte dei nativi, il territorio nordamericano è stato antropizzato in tutta la sua parte abitabile.
I nuovi arrivati erano infatti portatori di un’altra cultura, predatoria e consumistica, del cibo: avevano bisogno di sempre più terra di cui appropriarsi per disboscare, coltivare, allevare, costruire sino confinare in «riserve» gli originari abitanti.
Le scelte alimentari guidano da tempo immemorabile i comportamenti dei popoli, la loro cultura, la scienza, lo stesso diritto.
Il rapporto con il cibo è anche alla base del rapporto con la proprietà della terra: è l’agricoltore, stanziale, che ha necessità di averne il pieno dominio, anche legale, per essere il solo a poterne trarre i frutti. È l’agricoltore che inventa i confini, le recinzioni, i limiti tra ciò che gli appartiene e la terra «degli altri».
Se le piene del Nilo non avessero ogni volta stravolto i confini tra le proprietà agricole, costringendo gli Egizi a ristabilirli una volta passata la piena, avremmo avuto lo stesso la geometria e dalla geometria la matematica?
Se il calcolo delle fasi lunari non fosse risultato decisivo in agricoltura avremmo avuto l’astronomia?
Il cibo alla base delle religioni
«L’essere umano è l’unico animal religiosum che conosciamo» (Andrea Aguti, «Come è nata la nozione di Dio?»). La nascita delle religioni, o meglio l’emersione di elementi religiosi, è stata collocata nel Neolitico come risposta collettiva a due interrogativi che hanno attraversato, con modalità e tempi diversi, tutte le culture e le civiltà: la definitività della morte (o l’esistenza di una qualche forma di sopravvivenza in un altrove non esattamente identificato) e la ragione dei fenomeni naturali dai quali dipende la sopravvivenza, la prosperità o, viceversa, la rovina e la miseria di un determinato gruppo.
Nel culto della Madre Terra, sostanzialmente comune a tutti i popoli e che nella cultura ebraico-cristiana che s’imporrà nel mondo occidentale verrà sostituito da quello di Dio Padre, la questione del cibo è centrale.
Il cibo, mediante quel dominio dei fenomeni naturali che sfugge al controllo umano, ma è ritenuto prerogativa divina, promana dalla divinità che va blandita, adorata, indotta a schierarsi a favore dei propri fedeli, a prendersene cura.
Nella preghiera cristiana del Padre Nostro, che secondo i Vangeli promana direttamente da Gesù, la richiesta del cibo si fa pressante, persino imperativa: «dacci oggi il nostro pane quotidiano».
La sacralizzazione del cibo è diventata, almeno in Occidente, anche una forma di egemonizzazione culturale e colturale.
Il pane ed il vino del sacramento eucaristico, l’olio d’oliva nell’unzione degli infermi e dei moribondi, entrando nei riti cristiani hanno trovato una sorta di corsia preferenziale per affermarsi in tutto l’Occidente e la triade grano, vite e olivo di cui si è appropriato il cristianesimo, pur temporalmente antecedente al suo avvento, ha rappresentato una delle prime forme di colonizzazione alimentare prima in Europa, poi in tutti quei territori in cui l’Occidente ha imposto la propria presenza.
I Romani: un popolo con i piedi ben piantati nella terra
Se si guarda alla civiltà dell’Antica Roma senza lasciarsi abbacinare dalle vestigia, dalla lingua, dalla stessa enormità, per la sua epoca, dell’Impero nel momento della sua massima espansione, non sfugge che quella romana era una civiltà agraria esattamente come, molti secoli dopo, le grandi potenze occidentali inglese, francese, portoghese e olandese, ed in misura minore spagnola, baseranno il loro dominio sul commercio e quella statunitense, ora quella cinese, sull’industria, i beni di consumo e la superiorità tecnologica.
Nella ricchezza della letteratura latina colpisce la quantità di testi che hanno direttamente ad oggetto l’agricoltura, la gestione delle aziende agricole o che utilizzano il cibo e le modalità della sua produzione come indicatori di civilizzazione.
Nell’azienda agraria e nella sua oculata gestione gli autori latini identificarono un modello economico e sociale, il metro per misurare, più che nella diplomazia e nelle virtù militari, il livello di capacità di coloro che aspiravano alla guida di Roma e in seguito non mancheranno di sottolineare, nella perdita di questo rapporto con la terra, un indice di decadenza tale da condurre alla rovina.
In età imperiale la distribuzione statale del cibo, in particolare del frumento, fu inoltre uno degli elementi di stabilizzazione sociale e di consolidamento del potere, di condizionamento delle masse e di mantenimento dello status quo: la divinità imperiale fu accettata nella misura in cui si manifestò come datrice di cibo.
L’ostentazione del cibo nel banchetto rinascimentale
Poche epoche come il Rinascimento hanno visto l’ostentazione del cibo come manifestazione di ricchezza, prestigio e potere.
Col banchetto rinascimentale nacque, a tutti gli effetti, la cucina occidentale di cui sono considerati capostipiti Martino de’ Rossi (o Martino de Rubeis), detto Maestro Martino e Bartolomeo Sacchi detto Plàtina.
Nel banchetto rinascimentale si realizzò il dominio dell’uomo sul cibo, piegato al gusto, all’estetica, alla fantasia: il cibo si affrancò dal semplice ruolo di soddisfazione delle necessità corporali per appagare tutti i sensi ed assunse un ruolo sociale e politico.
Oltre che per l’ostentazione dei cibo, tanto più evidente se raffrontata alle condizioni d’indigenza di buona parte della popolazione dell’epoca, il banchetto rinascimentale si caratterizzava per l’uso delle posate individuali, la ricchezza delle suppellettili, la cui fattura artistica ed i cui materiali, spesso preziosi, erano proporzionati sia alla ricchezza ed allo status del padrone di casa sia al prestigio degli ospiti.
La necessità di sorprendere e stupire gli ospiti con alimenti esotici sarà inoltre il motore con cui si diffonderanno in Europa i cibi americani che nel corso dei due secoli sostituiranno le coltivazioni autoctone: patate, mais, pomodori, che oggi consideriamo parte della nostra cultura alimentare e della nostra economia, arrivarono in Europa grazie al Rinascimento e col Rinascimento si diffuse lo zucchero.
Sulla sponda opposta dell’Atlantico le potenze coloniali videro nel nuovo rapporto europeo con il cibo l’opportunità di arricchirsi con la produzione di massa dei cibi maggiormente ricercati: zucchero prima e poi cacao e caffè. Nacquero le grandi piantagioni sudamericane e del Sud delle colonie americane e con esse la necessità di avere manodopera a basso costo: la soluzione fu trovata depredando l’Africa con la tratta degli schiavi con tutte le conseguenze che portò sia nel continente africano sia in quello americano.
Il Thanksgiving Day nella cultura nordamericana
Il Thanksgiving Day, il Giorno del Ringraziamento, la festa nordamericana più importante, trae origine dall’approdo sul suolo americano dei Pilgrims Fathers, i Padri Pellegrini che a bordo del Mayflower raggiunsero le coste dell’odierno Massachusetts nel novembre del 1620 ed è uno degli eventi fondativi, al pari della Dichiarazione d’Indipendenza, della Storia degli Stati Uniti d’America.
Quello che la storiografia ha lentamente portato a dimenticare, sostituendola, per motivi politici, con una vicenda dai tratti eroici e trionfalistici che trovano espressione appunto nel Thanksgiving Day, è che quelle persone non avevano la minima possibilità di colonizzare quei luoghi e probabilmente neppure di sopravvivere.
Giunti dall’Europa stremati dal lungo viaggio e falcidiati dalle malattie, si accorsero ben presto che i semi che avevano portato non davano frutto e che gli animali con i quali si erano illusi di sostentarsi non erano adatti a quel territorio: la metà di coloro che giunsero in America col Mayflower perì già nel primo inverno.
Per loro fortuna s’imbatterono nella pacifica tribù dei Wampanoag che si era stabilita in quel territorio, che li nutrì ed insegnò loro quali specie vegetali coltivare e quali animali allevare donando, senza avere nulla in cambio, cibo, sementi, animali, sapienza millenaria.
Il primo Thanksgiving Day quindi si svolse in un contesto di convivenza pacifica con i nativi americani il cui incontro quei Padri Pellegrini dovettero interpretare, non senza presunzione, come un segno benevolo del Signore.
In breve, tuttavia, agli occhi dei colonizzatori europei quei salvatori divennero selvaggi da combattere e sterminare e v’è da chiedersi cosa sarebbe successo, come sarebbe cambiata la Storia, se invece di soccorrerli e nutrirli i nativi americani avessero approfittato della loro debolezza per ricacciarli in mare o semplicemente li avessero abbandonati al loro destino.
Irlandesi negli Stati Uniti
Gl’irlandesi costituiscono una delle etnie maggiormente presenti negli Stati Uniti d’America ed il loro più illustre rappresentante è stato sicuramente John Fizgerald Kennedy.
La massiccia presenza irlandese negli Stati Uniti ha avuto un’impennata grazie alla Carestia delle patate o Grande Carestia, un evento catastrofico che tra il 1845 ed il 1849, a causa di un parassita delle patate, la peronospora, mise in ginocchio l’Irlanda, che aveva fatto del tubero di origine americana la sua coltura principale. Senza la peronospora delle patate e la migrazione di massa che ne seguì la Storia dell’Irlanda e quella degli Stati Uniti sarebbero state molto diverse.
Cibo, alimentazione e Risorgimento
Ha scritto Alberto Capatti: «Nella costruzione politico-economica dell’Italia, in cui la questione alimentare è il problema nazionale numero uno, la cucina è lo snodo culturale attraverso cui passano le risorse, gli approvvigionamenti, i soldi, i conti e la stessa qualità della vita» (Alberto Capatti, Cucina e morale spicciola, ne «Il Secolo Artusiano», Atti del Convegno, Accademia della Crusca 2012).
Agli occhi di chi si è formato con una visione trionfalistica del Risorgimento italiano e dei primi anni dell’Unità d’Italia, densi d’ideali e di fermento unitario, l’affermazione di Capatti, prestigioso storico dell’alimentazione, appare quantomeno dissonante.
Eppure se si guarda con occhi diversi a quel processo che vide in pochissimi anni una dinastia provinciale e tutto sommato marginale nel panorama europeo conquistare tutta la Penisola, quell’affermazione appare del tutto giustificata.
Grazie alle riforme agrarie introdotte da Cavour il piccolo Stato piemontese, che poteva contare solo sui possedimenti sardi oggetto peraltro di una cruenta colonizzazione, si trovò in una congiuntura vantaggiosa, anche sotto il profilo alimentare, rispetto ai propri competitori.
Guidato da una classe dirigente di stampo liberista e di origine aristocratica, che traeva le proprie ricchezze dalla proprietà terriera, il nuovo Stato unitario non solo non seppe, o forse neppure volle, affrontare lo squilibrio tra Nord e Sud, ma attuò una serie di politiche, come quella fiscale (la famosa «tassa sul macinato») e la leva obbligatoria, che impoverirono ulteriormente il Sud del Paese ed alimentarono il fenomeno migratorio verso gli Stati Uniti.
La «questione meridionale» fu anche, se non soprattutto, una questione alimentare acuita dalla crisi agraria che interessò le economie occidentali della fine del 1800, che il nuovo Stato si rivelò incapace di fronteggiare, e innescò il fenomeno del brigantaggio sanguinosamente represso con l’uso dell’esercito, i tribunali militari, le esecuzioni sommarie.
Fame e mercato nero: il secondo conflitto mondiale in Italia
Se si chiedesse ad uno qualsiasi dei rari superstiti italiani del secondo conflitto mondiale cosa si ricorda maggiormente di quel periodo la risposta molto probabilmente sarebbe: la fame, il mercato nero, la carne in scatola e le tavolette di cioccolato dei liberatori americani.
Quanto sia stata decisiva per le sorti del secondo conflitto mondiale la capacità, e nel nostro Paese l’incapacità, di fronteggiare le questioni alimentari lo ha ben illustrato Francesco Chiapparino nel suo saggio «Guerra, collasso economico e crisi alimentare» nell’ambito del convegno dedicato dal CISPAI a «La pasta in nero».
Lo strapotere alimentare degli Stati Uniti, la possibilità di approvvigionarsi dal proprio impero coloniale da parte degli inglesi a fronte dell’inadeguatezza e dell’impreparazione anche alimentare dell’Italia offrono una chiave di lettura sicuramente interessante per comprendere le sorti di quel conflitto.
Follow the food: il cibo motore della Storia
Anche se nella nostra civiltà consumista ci siamo abituati a pensare che il cibo si possa ridurre a semplice bene di consumo che grazie al commercio globale non mancherà mai sulle nostre tavole indipendentemente dai cambiamenti climatici e dalla congiuntura internazionale, il cibo è ancora, anche a poche centinaia di chilometri dai nostri confini, motore della Storia.
Lo è nelle migrazioni di popoli in fuga dai luoghi in cui per ragioni naturali o per i conflitti viene a mancare o è comunque insufficiente, nella costante ridefinizione delle zone d’influenza tra le varie potenze mondiali (e nelle sue infinite sfaccettature il conflitto Russo-Ucraino è anche un conflitto per il controllo delle risorse alimentari dell’Ucraina, granaio d’Europa), nella deforestazione dell’America latina a vantaggio di quelle colture che non soddisfano le necessità alimentari dei popoli locali, ma la speculazione occidentale.
Il cibo, ad ogni epoca, racconta e continuerà a raccontare.
Foto di -Rita-👩🍳 und 📷 mit ❤ da Pixabay
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