Il cibo, se lo trovo è di stagione?

il cibo

A parole scegliere il cibo di stagione, quello che nei diversi periodi dell’anno è al picco della produzione e dei valori nutrizionali, sembrerebbe la cosa più naturale del mondo, ma all’atto pratico le cose stanno in modo profondamente diverso.

La forza dell’abitudine

Per secoli le persone comuni non hanno avuto bisogno di domandarsi se ciò che trovavano sui banchi dei mercati fosse o meno di stagione: se c’era, magari ad un prezzo conveniente salvi gl’incerti del clima, voleva dire che era di stagione.

Uno schema d’acquisto che, ripetuto oggi, dà risultati diametralmente opposti e vede coinvolti non solo la grande distribuzione, ma anche buona parte dei banchi dei mercati rionali e dei piccoli punti vendita gestiti in prevalenza dagli extracomunitari.

Oggi come oggi per sapere se ciò che stiamo acquistando è di stagione occorre consultare la rete e spesso ci si rende conto di non saperne abbastanza.

La rottura della stagionalità: un fenomeno borghese

L’anonimo autore de «Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi», edito nel 1776, dedicò un ampio capitolo all’«Istruzione sopra ciò che la provida natura abbondantemente produce per la nostra sussistenza in tutto il corso dell’anno» e i due best seller culinari della loro epoca: «Apicio Moderno» di Francesco Leonardi (1807) ed il «Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confetteria» di Giovanni Vialardi (1854) s’intrattennero, con dovizia d’istruzioni, sui prodotti stagionali.

Il che fa supporre che già alla fine del 1700 quell’automatismo tra stagionalità ed acquisto andava perdendosi, almeno tra le persone agiate.

Cos’era successo?

Semplicemente che la borghesia urbanizzata, che diversamente dalla nobiltà non aveva un rapporto diretto con la campagna, cominciava ad acquistare e consumare il cibo che rispondeva ai propri gusti e non quello che trovava più a buon mercato, ad arricchire la propria mensa con prodotti esotici e primizie come dimostrazione di agiatezza e raffinatezza e ad imporre una forma di dominio del consumo cittadino sulla produzione agricola.

L’industrializzazione dell’agricoltura

Nel corso di un secolo e mezzo, fino ad arrivare al secondo dopoguerra, l’asservimento della produzione alimentare al consumo urbano, sempre più dominato dal gusto borghese, si completò, accelerato dall’industrializzazione che sottraeva forza lavoro all’agricoltura e stravolgeva abitudini di vita ed alimentazione.

In Italia, dopo la breve e tragica parentesi del regime fascista, che si era illuso di trasformare l’Italia in una potenza militare su base agraria, il fenomeno deflagrò negli anni del boom ed i nuovi consumatori di massa pretesero non solo di trovare cibo in abbondanza, ma di affrancarsi dalla stagionalità che fu percepita non come un valore, ma come una limitazione alle scelte di gusto individuali.

La produzione agricola nazionale, grazie soprattutto alla meccanizzazione ed all’impiego massiccio di fertilizzanti e diserbanti, alla coltivazione nelle serre e all’industria conserviera, si adeguò rapidamente perché ne andava della sua stessa sopravvivenza e si piegò al modello industriale di anticipazione, ma più spesso d’inseguimento, dei gusti dei consumatori.

Il cibo iniziò a dover essere veloce da acquistare e preparare; la sua scelta e la sua preparazione si conformarono all’esigenza di avere a disposizione più tempo libero e d’incastrare i diversi impegni in ritmi di vita sempre più frenetici in cui le donne, ormai inserite nel tessuto economico, non erano più le regine del focolare.

Fu forse il più esteso fenomeno di diseducazione di massa perché andò a colpire un sapere consolidato nei secoli sostituendolo con le diverse mode culinarie imposte dalle riviste e dalle rubriche di cucina che poco o nulla si preoccupavano della stagionalità privilegiando la praticità e la semplicità della preparazione dei cibi, il far bella figura con poco sforzo.

La nascita dei Mercati Contadini e la reazione dell’industria alimentare

I Mercati Contadini sono nati negli Stati Uniti agli inizi degli anni ’70 quando le piccole aziende agricole statunitensi, che le nuove condizioni di mercato avevano ridotto allo stremo, cominciarono a sottrarsi al dominio della grande distribuzione costituendo le prime esperienze di farmers’ markets: i saltuari mercati in cui produttori e consumatori potevano incontrarsi.

Il fenomeno si è diffuso progressivamente in Europa e nel nostro Paese è stato preceduto dai GAS (gruppi di acquisto solidale) prima come scelta politico-culturale, poi come fenomeno economico.

Fu chiaro sin dall’inizio che per invertire la tendenza del consumismo alimentare non era sufficiente proporre prodotti alternativi e di stagione, ma occorreva una vera e propria rieducazione alimentare ed ambientale che, ancora una volta, vedeva coinvolta la borghesia: la classe sociale più istruita, sensibile al tema dello sviluppo sostenibile e con maggiore disponibilità di tempo per gli acquisti e di risorse economiche.

Parallelamente i mass media (stampa specializzata, televisione, foodbloggers) si sono impadroniti del tema della stagionalità esaltandone le virtù sia dal punto di vista ambientale, sia sotto il profilo salutistico ed anche le Autorità governative, sia a livello centrale sia a livello regionale, oggi sostengono ed incoraggiano la stagionalità anche se con risultati in termini di volumi d’acquisto decisamente minoritari soprattutto in quella fascia di popolazione che dà più importanza al prezzo che alla qualità o alla provenienza.

Oggi i Mercati Contadini, accanto alle botteghe d’eccellenza, sono una realtà diffusa che assorbe un numero crescente di consumatori e questo anche perché le nuove emergenze ambientali hanno rimesso al centro il cibo recuperandone il valore politico, culturale e salutistico.

Ci si è resi conto che la liberazione dalla stagionalità invece di arricchire l’alimentazione la impoveriva, che si finiva col mangiare sempre le stesse cose con qualità sempre più scadente, che alcune varietà agricole rischiavano di scomparire per sempre.

La reazione dell’industria alimentare non si è fatta attendere e la sua risposta è stata una nuova narrazione pseudo-ambientalista che racconta che solo il cibo fatto in laboratorio: dalla carne sintetica alle farine d’insetti, dalle colture idroponiche all’«EntoMilk» (un latte a base di insetti estratto dalle larve della cosiddetta mosca-soldato nera) sarà in grado di fornire cibo di massa ambientalmente sostenibile.

La partita per il controllo dei ricchi mercati alimentari occidentali si è riaperta.

Con quali esiti non è dato sapere.

Foto di Gabe Raggio da Pixabay

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