La parola desiderio deriva dall’unione della particella privativa de con sidera (plurale del termine latino sidus, sideris), che significa stelle. De-sidera, dunque, vuol dire letteralmente mancanza di stelle. Il desiderio infatti non è altro che la tensione verso qualcosa che ci manca. E le stelle fin dall’antichità rappresentano il destino, la perfezione, la verità e l’infinito: tutto ciò che di più alto ci sia da desiderare e che l’uomo non riesce ad afferrare finché resta vincolato alla terra.
Il senso travisato della perfezione
Al contrario, la parola perfetto viene dal latino perfectus, participio passato di perficĕre, che vuol dire compiere, condurre a perfezione. La perfezione è la meta del desiderio. L’oggetto che muove la volontà di migliorare, l’obiettivo sommo oltre il quale non esistono altri obiettivi. È il fine in nome del quale tracciare il nostro percorso nel mondo, ma non può appartenere a questo mondo perché l’uomo finirebbe per svuotarlo di senso. Tradurrebbe la perfezione nella possibilità di “avere tutto quello che vuole e fare quello che gli pare”, e si ritroverebbe in un inferno di noia e di insensatezza. Così la perfezione invece di fargli toccare le stelle lo farebbe sprofondare nella terra, come dimostra lo scrittore Dino Buzzati in un breve racconto intitolato Nuovi strani amici.
Il racconto parla di Stefano Martella, il direttore di una società di assicurazioni che un giorno muore e si ritrova in quello che inizialmente pensa sia il paradiso. «Si ritrovò in una meravigliosa città, fatta di edifici sontuosi, strade ampie e regolarissime, giardini, ricchi negozi, ricche automobili, cinema e teatri, gente ben nutrita ed elegante, limpido sole, tutto bellissimo a vedersi». Ad accompagnare Martella per le vie di questa città fantastica c’è un signore di nome Francesco. Un uomo con l’aria beffarda che gli fa capire che in quel luogo c’è tutto quello che potrebbe desiderare ed è suo. Lì Martella può condurre in eterno una vita perfetta, dove non c’è più spazio per il verbo “desiderare”.
L’obbligatorietà e la libertà
Ma questa impalcatura di perfezione scricchiola fin dall’inizio della storia. Fin da quando nel tragitto verso il suo nuovo palazzo, Martella nota una certa fissità nei volti dei passanti e pensa: «Per forza […] non possono mica continuare a sorridere di felicità per tutto il giorno». L’espressione per forza viene ripetuta anche nelle righe seguenti, quando alla domanda «Contento?», Martella risponde «Eh, per forza contento». Queste due parole introducono l’idea di obbligatorietà che è contraria a quella di libertà e ci fa intravedere le sbarre che costituiscono la gabbia dorata in cui è rinchiuso il protagonista.
Piano piano Martella scopre che di cose che mancano in quello pseudo-paradiso ce ne sono tante. Mancano sì il dolore, la paura, le malattie, la morte. Ma mancano anche l’amore, la verità, la libertà e soprattutto manca Dio che in sé racchiude quell’Amore, quella Verità e quella Libertà che sono il vero compimento dell’essere, l’autentica perfezione. Quando in un bellissimo circolo pieno di persone facoltose un giovane magro e pieno d’angoscia prova a svelare a Martella come stanno davvero le cose, questi viene cacciato fuori in malo modo. È «come se avesse contravvenuto ad un geloso patto dal quale dipendesse la comune esistenza».
La bellissima scatola dell’inferno
É il patto segreto che lega gli altri membri del circolo, i nuovi strani amici a cui Martella dovrà accompagnarsi per l’eternità. Nonostante il discorso del giovane magro resti incompiuto, il protagonista ha capito tutto: «una voce sottile, estremamente precisa, gli diceva ciò che l’altro non era riuscito. “Ma non hai ancora capito” diceva questa voce “che noi siamo all’inferno”?». A un tratto tutto ciò che sembrava essere stato guadagnato senza fatica si rivela essere una bellissima scatola vuota ottenuta al costo della perdita di un bene molto più grande.
Una simulazione di vita in cui si ha ogni bene materiale possibile ma in cui si è orribilmente soli. Una montatura costruita ad arte di cui bisogna accontentarsi per forza, ma in cui non si può mai davvero essere contenti. E dato che in questa impalcatura infernale la libertà non è contemplata, a Martella non resta che fissare «in faccia i cari amici», unirsi alla «disperata congiura» e «con fatica miseranda» tentare di sorridere.
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