Uscito in questi giorni nelle sale italiane, Il diritto di uccidere affronta in modo originale il problema attualissimo dell’utilizzo dei droni nella lotta al terrorismo.
Il colonnello inglese Katherine Powell (Helen Mirren), dopo sei anni di caccia serrata ad una connazionale diventata terrorista, la rintraccia, mediante l’uso dei droni satellitari, in un piccolo villaggio del Kenya. Qui la ricercata si rifugia in una casa dove, insieme ad altri due criminali, sta preparando giubbotti esplosivi per un imminente attentato. L’idea della Powell è quella di utilizzare un droide americano per far esplodere l’edificio a distanza, ma nel frattempo una bambina kenyota si posiziona proprio davanti alla casa col suo banchetto di pagnotte di pane in vendita. Il tenente americano Steve Watts (Aaron Paul, il Pinkman di Breaking Bad) si rifiuta di eseguire il lancio del missile teleguidato fino a che la bambina non si sarà allontanata dal bersaglio. Ma il tempo stringe, i terroristi potrebbero lasciare l’edificio improvvisamente: a questo punto tutti i rappresentanti del potere militare, politico e giuridico, sia inglesi che americani, da luoghi e posizioni diverse, si scontrano sul modus operandi da adottare, tra stime e disamine dei danni collaterali, permessi speciali da ottenere, crucci legali e soprattutto morali sulla fattibilità di questa complessa operazione.
Il regista sudafricano Gavin Hood, premio Oscar nel 2005 con Il suo nome Tsotsi, dirige il suo film più riuscito, riaffrontando (vedi Rendition – Detenzione illegale del 2007) il tema spinoso di cosa sia lecito in situazioni di guerra o estreme, in un mondo dove la minaccia del terrorismo appare sempre più concreta e vicina per noi occidentali. Il titolo originale “Eye in the sky” (ovvero “l’occhio nel cielo”), solleva un altro aspetto cruciale nell’esegesi del lungometraggio inglese, prodotto, tra gli altri, da Colin Firth: oggi la tecnologia permette di spiare, di intercettare, di infiltrarsi nella vita di ognuno, come egregiamente rende la telecamera-drone satellitare di Hood. L’occhio della telecamera diventa l’occhio dello spettatore, il monitor del gioco di morte, con la qualità HD di una ripresa dall’alto che mescola in maniera diabolica il grande fratello orwelliano con la dinamicità dei più sofisticati videogame. La guerra 2.0 è asettica, lontana, impalpabile: non si combatte più corpo a corpo, né con le milizie e i plotoni; adesso si lanciano missili teleguidati dall’altra parte della Terra con la velocità di un clic e si studiano effetti e statistiche con la facilità di un videogioco interattivo, per questo il drone diventa simbolo di un modo differente di combattere.
In questa prospettiva, guardare non è fine a se stesso, non è segno di passività. Guardare è agire, perché lo sguardo genera opinioni diverse sui protagonisti, che per oltre tre quarti di film cercano di dare una spiegazione e un’etica alle scelte che intendono difendere. Alla tensione del thriller si unisce con efficacia la dialettica del dramma giudiziario molto parlato alla Lumet: ci sono reminiscenze de La parola ai giurati in questo bel film corale, per certi versi teatrale, recitato benissimo (un plauso particolare alla classe algida di Ellen Mirren e al sommesso humor british di Alan Rickman, qui alla sua ultima interpretazione), con i diversi rappresentanti – militari, politici, giuristi – al loro giusto posto nella scacchiera del potere, chiamati ad interrogarsi: che valore ha una vita umana? E quella di un bambino? Vale il prezzo della salvezza di decine di altre? Il regista non prende posizione, lascia ad ogni spettatore la facoltà di schierarsi liberamente: ognuno di noi non sarà più semplice osservatore passivo. Sarà testimone oculare.
DATA USCITA:
GENERE: Drammatico , Guerra , Thriller
ANNO: 2015
REGIA: Gavin Hood
ATTORI: Helen Mirren, Aaron Paul, Alan Rickman
SCENEGGIATURA: Guy Hibbert
FOTOGRAFIA: Haris Zambarloukos
MONTAGGIO: Megan Gill
MUSICHE: Paul Hepker, Mark Kilian
DURATA: 102 Min
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