Il Fu Mattia Pascal: un romanzo a teatro

fu mattia pascalIl Fu Mattia Pascal, nel lodevole adattamento teatrale di Eleonora Di Fortunato e Claudio Boccaccini, che cura mirabilmente anche la regia, è in scena al Ghione di Roma fino al 21 gennaio. Un’opera difficile da realizzare a teatro; un esperimento perfettamente riuscito.

La scenografia di Giulia Colombo è una grande protagonista: in un mondo di libri, che presuppongono conoscenza e coscienza, che accendono lanterne negli occhi degli uomini, per vedere con chiarezza ma anche per temere il buio che inevitabilmente si annida oltre la luce; in un mondo di libri che raccontano suggestivi avvenimenti, rischiando di far sembrare la vita del lettore un niente, una virgola insignificante tra tante parole prive di senso, una sequenza di fatti che non sanno comporre una storia; in quel mondo di libri si dipana la vita romana di Adriano Meis, fu Mattia Pascal, e si intuisce Pirandello in una giusta mescolanza di innovazione e fedeltà al testo. Sì, la filosofia pirandelliana non abbandona mai la scena e fa riflettere e sorridere in un delicato intreccio di ragionamenti sulla condizione dell’uomo; un uomo che, sotto un taglio nel cielo di carta di un teatro, sotto un piccolo squarcio che fa alzare la testa e guardare oltre, verso l’inconoscibile, nasce Oreste e si addormenta Amleto.

La storia è nota: mentre torna a casa con le tasche piene del denaro vinto al Casino, Mattia Pascal si rende conto di essere stato dato per morto. In un sol colpo, dunque, si ritrova ricco e libero. Libero da una moglie assillante e da una suocera petulante ed aggressiva; libero da una vita che non gli garba più. Può essere chiunque e può vivere ovunque. Ancora non sa, ovviamente, quanto sia difficile fuggire da se stessi. Assume il nome di Adriano Meis e va a Roma. Lì prende in affitto una camera nella dimora di brava gente. Fatalmente si innamora di Adriana, la figlia del padrone di casa. Poi, però, la sua libertà si deteriora, assomigliando sempre più alla gabbia sepolta con la sua vecchia vita. Altre le persone che lo vorrebbero diverso, altri i luoghi, altre le convenzioni cui deve rispondere senza poterlo fare, ma il risultato non cambia. E, così, lasciando bastone e cappello sulla sponda di un ponte, lascia che lo immaginino morto, ancora una volta morto, tra le acque del fiume.

La scena teatrale non può restituire al pubblico il lento fluire del Tevere, che, nel romanzo, accompagna Mattia costantemente, fino all’ultimo, fino al suo addio alla città ed alla vita che si è inventato; tuttavia entra in scena ugualmente, in parte attraverso l’iniziale descrizione della veduta di quella che diventerà la stanza di Adriano Meis; in parte attraverso le parole dei protagonisti che, proprio come un fiume, si sciolgono, ora morbide e malinconiche, ora impetuose e travolgenti; in un caso persino sapientemente sottolineate dalla musica. E’ davvero sublime, infatti, la trovata di rendere corale e serrata la storia del lanternino e la ripetitiva verifica che il buon Meis non si sia addormentato nel frattempo. C’è ritmo, potenza, incisività in quel coro di voci, in quel racconto filosofico che raggiunge il Meis convalescente, ma, soprattutto, raggiunge il pubblico, fortemente coinvolto da un risveglio dell’anima così cadenzato, quasi rapito da una ballata della consapevolezza.

“Dorme?”

“No. Rifletto”

Il pubblico potrebbe dirlo insieme a Meis e senza tema d’errore.

Il vaneggiamento ed il rovello dei personaggi pirandelliani, impegnati ad inseguire un’identità in grado di sanare le lacerazioni del Sé; l’interiorità dilaniata, la sofferenza esistenziale; quel vivere che impone un vedersi vivere, albergano senza incoerenza in Mattia Pascal ed in Adriano Meis, quasi quei nomi celino davvero due persone distinte. E, così, passeggiando per Pisa, ormai morto Adriano Meis e non ancora rinato Mattia Pascal, il personaggio pirandelliano si ritrova a pensare tra sé e sé: “Adriano Meis, che c’era stato, voleva quasi far da guida e da cicerone a Mattia Pascal”. Ebbene, Felice Della Corte, bravissimo nell’interpretare Adriano Meis e Mattia Pascal, rende perfettamente questo dualismo: pacato, ma anche inquieto; agitato eppur sereno nei suoi dubbi, che aumentano lentamente fino alla decisione di abbandonare Roma uccidendo una parte di se stesso per risorgere in una vita che non gli appartiene più. E che non gli appartenga è poco ma sicuro, perché tutto è cambiato. Sono passati due anni e mezzo e tutto è cambiato. E la libertà? Assume un altro aspetto, un altro colore, un altro sapore, ma continua ad essere sempre la stessa: illusoria e bugiarda, assolutamente meno libera di quel che Mattia Pascal vorrebbe. Le azioni degli altri la modificano, la limitano, la invadono. E’ così in ogni opera pirandelliana: la supremazia della ragione altrui, la parcellizzazione della verità.

Il Fu Mattia PascalMeno arrovellato il personaggio di Adriana, interpretato dall’eccellente Alessia Navarro. E’ una donna lineare, Adriana; una donna dai sentimenti coraggiosi, avvezza a sfiorare le bugie senza cadervi dentro, fiduciosa in Dio, suo delegato per ogni problema. Personaggio meno arrovellato, sì, ma non meno complesso in quel suo portare il carico di un amore corrisposto eppure sfortunato. La menzogna di Adriano, che lei vive come mancanza di coraggio, la distrugge e la rende titanica al contempo. Il suo amato se ne va senza voltarsi indietro, è null’altro che un’ombra lontana, ma lei non demorde e, prigioniera di un’illusione assassina, gli urla di avere fiducia in lei, nella forza dei suoi sentimenti; di credere e di appoggiarsi a lei perché il suo cuore può sanare ogni dubbio, può essere forte per due. A quante donne, deluse e disgraziate, l’ho sentito dire! L’applauso, meritatissimo, che ha seguito l’uscita di scena della Navarra, ha evidenziato quel momento da brivido. Brava. Brava. Ho ancora un fremito d’emozione nel ripensare all’intensità della sua recitazione, capace di dare vita ad un amore scoraggiato, alla delusione, alla fragilità fatta forza.

E bravi tutti, ovviamente, Siddhartha Prestinari, Paolo Perinelli, Maurizio Greco, Pierre Brasolin, Ilaria Serantoni, oltre a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione delle scene, perché uno spettacolo ben riuscito è una sinfonia. Ogni attore ha attraversato le barriere di una storia difficile, in bilico tra essere, non essere, apparire; ha fronteggiato verità e menzogne; ha trattato, con una giusta mistura di serietà e di facezia, delicate questioni esistenziali; ha dato vita a personaggi capaci di uscire dal palcoscenico ed accompagnare lo spettatore fino a casa, nel parlottio amicale del dopo spettacolo, nella condivisione con chi non è andato a teatro, nei pensieri solitari che sempre affiorano quando cala il silenzio e la notte si fa gigantesca. Gli attori sono scesi tra il pubblico, alla fine, a cogliere i meritatissimi applausi. In realtà sono sempre stati lì, o, meglio, hanno fatto salire il pubblico in palcoscenico per più di un’ora e mezza, coinvolgendolo nel profondo. Questo è teatro!

di Raffaella Bonsignori

1 risposta

  1. Raffaella Bonsignori

    Grazie alla Compagnia per aver apprezzato questa mia recensione; per le belle parole di Eleonora Di Fortunato e di Alessia Navarro; per l’apprezzamento del regista Claudio Boccaccini. E’ stato davvero un privilegio potervi applaudire: il vostro impegno e la vostra bravura sono stati eccezionali.

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