Il nuovo governo detto del “cambiamento”, nato dall’alleanza del Movimento 5 Stelle con la Lega, avrà cinque anni per mettere in atto un programma racchiuso in un contratto di circa sessanta pagine, scritto in tre settimane di intense trattative. Le maggiori difficoltà hanno riguardato non tanto il programma in sé, quanto le persone che dovranno attuarlo. Nonostante più volte Luigi Di Maio e Matteo Salvini abbiano affermato che i temi venivano prima delle persone, le difficoltà nell’individuare queste ultime, e in particolare colui che avrebbe ricoperto la carica di premier, sono state tante e tali da far invocare spesso il ritorno immediato alle urne. I due leader, che nelle dichiarazioni ufficiali hanno manifestato apprezzamento reciproco e si sono detti orgogliosi della intesa che ha caratterizzato il loro lavoro, non sono riusciti a superare il nodo di chi di loro dovesse fare il premier.
La scelta è caduta su Giuseppe Conte (foto), pugliese, professore di diritto, con un curriculum di tutto rispetto, anche se un po’ gonfiato, ma con nessuna esperienza politica. Il 1 giugno il neopresidente del Consiglio dei Ministri ha giurato davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Dopo di lui lo hanno fatto i ministri. Sono 18, tutti più o meno sconosciuti. Il che, di per sé, non è un male. Le uniche facce note sono quelle di Di Maio e di Salvini, veri artefici di un’accordo che fino a solo un mese fa era impensabile. Rispettivamente ricopriranno le cariche di Ministro dello Sviluppo Economico, del Lavoro e delle Politiche Sociali e di Ministro dell’Interno nonché di Vicepresidenti del Consiglio.
E’ presto per dire se l’inesperienza di Conte si tradurrà in incompetenza, ma una domanda si pone fin da subito e riguarda il ruolo di coordinamento del premier previsto dalla Costituzione (Art. 95). Allorquando ne avranno necessità, i ministri che lo “affiancheranno” – la parola è sua – si rivolgeranno a lui o lo scavalcheranno parlando con i due Vicepresidenti? Sono questi i limiti e le incertezze che incombono sulla figura del nuovo premier e che ne condizioneranno l’operato nel corso del suo mandato. Tali limiti sono emersi con chiarezza il 27 maggio quando Conte ha rimesso l’incarico perché non era in grado di fare una controproposta per la nomina di ministro dell’economia.
La “tempesta perfetta” è scoppiata intorno al nome di Paolo Savona, artefice e paladino del cosiddetto “piano B” di uscita dell’Italia dall’euro. Savona, economista di lungo corso con grande esperienza anche in istituzioni internazionali, era stato scelto da Di Maio e Salvini per diventare Ministro dell’Economia. Già alcuni giorni prima che Conte presentasse formalmente a Mattarella la lista dei ministri erano emersi segnali di contrasto con il Quirinale. Il Presidente della Repubblica aveva espresso perplessità sull’economista e aveva rifiutato le imposizioni dei due leader. Questi per contro avevano parlato di inaccettabili “diktat” del Presidente. Nel frattempo la paventata nomina di Savona aveva innervosito i mercati facendo impennare lo spread.
La sera di domenica 27 maggio Sergio Mattarella in una comunicazione durata oltre sette minuti ha spiegato agli italiani i motivi del mancato avallo alla nomina di Savona: “sostenitore di una linea più volta manifestata che potrebbe provocare probabilmente, o addirittura inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’Euro”. Mattarella ha aggiunto di aver “registrato con rammarico indisponibilità a ogni altra soluzione”. Queste frasi rappresentano il punto cruciale del drammatico comunicato del Presidente ed è da esse che bisognerà partire se mai si vorrà fare, un giorno, un’analisi seria della crisi istituzionale che ne è seguita, crisi culminata con la dichiarazione, da parte di Di Maio, ma anche di altri esponenti politici, di voler mettere in stato d’accusa il Presidente della Repubblica. Fortunatamente le cose non sono andate in questa direzione e a Matteo Salvini si deve un “bravo” per non aver voluto sostenere Di Maio nella sua richiesta di “Impeachment” impedendo in tal modo di avere i numeri necessari in parlamento.
Su tutta la faccenda resta un sospetto, pesante come un macigno, relativo proprio alla clausola di uscita dall’Euro, già inserita in una versione preliminare del contratto di governo, resa pubblica il 15 maggio da Huffington Post, che prevedeva l’introduzione di “specifiche procedure tecniche di natura economica e giuridica che consentano di recedere all’Unione monetaria”. E’ dunque lecito chiedersi se Di Maio e Salvini hanno mentito agli italiani su una questione così cruciale, di cui peraltro avevano evitato di far menzione durante la campagna elettorale. E la domanda è tanto più legittima ora che i due politici coprono anche ruoli istituzionali di primaria importanza. L’auspicio è che, diversamente da quanto hanno fatto nelle ultime settimane in cui il paese ha rischiato di precipitare in una crisi dagli esiti imprevedibili, Di Maio e Salvini assumano adesso una postura istituzionale all’altezza dei loro incarichi.
I temi che hanno diviso gli animi fino alla formazione del governo, continueranno a dividerli anche in futuro. Tra essi i temi economici, con la tanto discussa riforma fiscale incentrata sulla Flat Tax; con l’introduzione del cosiddetto Reddito di Cittadinanza; con l’abolizione della riforma Fornero delle pensioni (nonostante abbia contribuito a contenere l’enorme debito pubblico); con l’annunciata revisione del Jobs Act (nonostante abbia creato centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro). Ma ancora più dei temi economici, saranno quelli legati all’Europa a tenere accesi i riflettori sul nuovo governo. Ciò avverrà già nei prossimi giorni con il G7 in Canada (8 e 9 giugno), con la riunione del Consiglio Europeo a Bruxelles (28 e 29 giugno) dove si parlerà di migranti e di bilancio europeo, con il Summit Nato (11 e 12 luglio) sempre a Bruxelles per fare il punto su difesa e sicurezza. Il tutto nella prospettiva delle Elezioni Europee del maggio 2019 che probabilmente accentueranno la polarizzazione degli elettori rispetto a temi così importanti.
Un’ultima considerazione riguarda il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A lui va il merito di aver saputo gestire una delicata fase politica del nostro paese. In questa sede ci prendiamo la libertà di affermare che se Mattarella avesse avallato la nomina di Savona a Ministro dell’Economia, allora sì che si sarebbe posta la questione dell’Impeachment. Nel suo comunicato del 27 maggio Sergio Mattarella ha detto con chiarezza che una riforma dell’Europa è necessaria, ma ha aggiunto che una soluzione va ricercata “nell’ambito della Unione Europea per cambiarla in meglio, dal punto di vista italiano”.
Capiremo presto se il nuovo esecutivo nato dal voto di protesta degli italiani sarà capace di realizzare questo compito.
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