Già da piccolo avevo la collezione completa dei vinili originali dei Beatles. In realtà era una collezione di papà, ma si trattava di una raccolta di cui ero orgoglioso e fiero.
Che emozione quella mela. Tiravo fuori dalla custodia quei vinili e guardavo la mela intera che significava <<lato A>> e la mezza mela che significava, invece, <<lato B>>.
Mi piacevano tantissimo i Beatles e ancora oggi provo forti emozioni ad ascoltarli.
Magistrali …
I Beatles rappresentano la leggenda; la storia della musica leggera.
Basti pensare che quando parliamo dei loro brani ci riferiamo a tracce prodotte tra il 1963 ed il 1970 [praticamente 50 anni fa] e che sono opere intramontabili ed al tempo stesso attualissime.
Nella loro produzione si sono succeduti più di uno stile; spesso il loro stile ha creato <<quel>> momento.
I nostri protagonisti, questa è cosa nota, sono 4 ragazzi di Liverpool: Paul McCartney, John Lennon, George Harrison, Ringo Starr e la loro prima pietra della leggenda è “Please please me”: anno 1963.
Per il primo lavoro qualche brano scritto da altri per loro (“Twist and shout”, “A taste of honey”), in mezzo ai quali spuntano però le prime perle: “Please please me”, “Love me do”, “I saw her standing there”.
Sebbene siano ancora poche le tracce del talento (che sarà) di Lennon/McCartney, il disco denota una palese innocenza beat per un primo lavoro davvero niente male.
E’ il prologo; perché con la seconda produzione (“With the Beatles”) i Fab Four entrano nella storia.
Arrivano i primi classici targati Lennon/McCartney e siamo ancora in pieno stile beat (come a dire che il meglio deve ancora venire): “All my loving”, “I wanna be yor man”, “Hold me tight”.
Canzoni d’amore adolescenziali a ritmo di rock’n’roll e temi romantici di facce pulite con canzoni che non superano mai i 3 minuti: una regola.
Un anno dopo (1964) esce “A hard day’s night”, colonna sonora dell’omonimo film autobiografico, dove troviamo alcune delle canzoni più famose dei primi anni.
Tutte rigorosamente firmate John & Paul.
“A hard day’s night”, “I should have known better”, “If I fell”, “And I love her”, “Tell me why”, “Can’t buy me love”, “Any time at all”.
Sono tutte canzoni straordinarie che suggellano l’inizio di cinque anni meravigliosi, frenetici, creativi, trionfali.
E’ un successo in progressione; inarrestabile.
“Beatles for sale” (siamo nello stesso anno, il 1964) ne è la prova.
Nonostante arrivi quasi inaspettato (il successo) e i Beatles accusino il primo stress da successo, questo disco nuovamente pieno di cover, è ugualmente un boom.
Il resto lo fa John Lennon, sfoderando novità come “No reply”, “Eight days a week”, “Every little thing”.
Nel 1965 esce “Help”, colonna sonora dell’omonimo film e si tratta del primo album davvero importante.
E’ un’opera davvero completa che si distacca dal beat per avvicinarsi a nuove sonorità folk/rock, sebbene brani come “Ticket to ride” e la stessa “Help” conservino qualche traccia del passato.
E poi c’è “Yesterday”, meravigliosa ballata acustica scritta interamente da Paul McCartney. “Rubber soul” (1965) segna l’inizio di una nuova vita (non solo dal punto di vista stilistico) e di nuove esperienze. Il suono del sitar presente in “Norwegian wood” ne è l’esempio.
Ma la nuova sensibilità, le nuove malizie ed i primi doppi sensi, li troviamo anche in “Nowhere man” e “In my life”. Poi ci sono i soliti richiami alle melodie ed agli amori adolescenziali in “Michelle”, “Girl”, “Drive my
car”.
Altro giro, altra perla: “Revolver” (1966).
Da molti giudicato come il disco migliore dei Beatles (secondo me <<uno tra>>, ma non <<il più>>) e da tanti sicuramente rivalutato qualche decennio fa.
Quello che posso dire con certezza è che si tratta del primo lavoro apertamente psichedelico e dell’inizio dell’ultima fase stilistica dei Fab 4.
Spiccano “Eleanor rigby”, “Here there and everywhere”, “Good day sunshine”, “I’m only
sleeping”.
La cosa più semplice e più commerciale è “Yellow submarine”, che verrà riproposta qualche anno dopo nel disco omonimo.
Il 1967 da i natali al disco più importante e influente di tutto il rock, che racchiude tutta l’arte dei Beatles: “Sgt. Pepper’s lonely hearts club band”.
Ci sono registrazioni senza precedenti per durata e uso di tecniche di una modernità (per il periodo) impressionante.
Vero capolavoro del pop, pietra miliare della psichedelia che c’è, ma non assilla.
Il sergente Pepper e la sua banda viaggiano tra il romanticismo (“She’s leaving home”, “When I’m sixtyfour”), le visioni distorte da sostanze particolari (“Lucy in the sky with diamonds”) per concludersi con “A day in the life”, un giorno nella vita, di quelli che difficilmente si dimenticano.
Nello stesso anno esce anche il “Magical mistery tour”, contenente i brani del film omonimo tra cui la bella “The fool on the hill” e nel 1968 l’unico LP doppio della storia dei Beatles.
Ufficialmente “The Beatles”, ma da tutti conosciuto come The white album.
Il famoso album bianco dalla copertina completamente di questo colore, senza alcuna scritta se non il nome del gruppo che risalta, sempre in bianco, in rilievo.
E’ un’opera stilisticamente molto varia e che torna prepotentemente alla semplicità dei primi anni voltando, non poco le spalle ai bagliori psichedelici degli ultimi lavori.
Rock elettrico in abbondanza dove cominciano ad emergere i tanti lavori individuali a danno di quelli di gruppo.
C’è il rock di “Back in the USSR”, ci sono le ballate acustiche di “Blackbird”, “I will”, “Cry baby cry”, la delicatezza di pezzi come “Julia” e “Mother nature’s son”.
Ma ci sono anche le sperimentazioni di “Revolution #9”, il punk di “Helter skelter”, per finire con le filastrocche di “Obladi oblada” e “Piggies”.
Un altro disco molto bello che però sancisce un punto di non ritorno.
Da qui in avanti non saranno più i 4 Beatles, ma Lennon e McCartney; qualche volta Harrison; quasi mai Starr.
Il 1969 è l’anno di “Yellow submarine”, colonna sonora del film omonimo, che poi più che un film è un cartone animato: una divertente storia psichedelica un po’ per tutte le età con sole 6 canzoni più 7 brani musicali.
Ma è anche l’anno di “Abbey Road”. Forse si tratta della copertina più famosa con i Fab 4 che attraversano sulle strisce pedonali l’omonima via che da il titolo all’album.
Non lo è ufficialmente, ma in un certo senso è come se questo fosse l’ultimo disco dei Beatles; le ultime registrazioni dopo che i nastri di “Let it be” (sarà questo l’album successivo che chiuderà questa fantastica storia) erano stati accantonati per problemi e divergenze varie.
“Abbey Road” è un lavoro senza rifiniture particolari, realizzato in fretta e, anche per questo, è un album prodigioso.
George Harrison trova qui per la prima volta (e finalmente!) lo spazio adeguato ed il giusto risalto con le canzoni probabilmente più belle del disco: “Here comes the sun” e “Something”.
Per il resto John e Paul scrivono e ci regalano diamanti romantici (“Golden slumbers”, “The end”), surreali (“Maxwell’s silver hammer”), rock (“I want you”).
E (udite udite …) c’è anche spazio per Ringo con “Octopus’s garden”, a rappresentare la seconda parte di Yellow submarine.
E’ il disco più atipico e imprevedibile: è un altro capolavoro!
E poi … “Let it be” (1970): il commiato.
Sicuramente in tono minore, con molti strascichi e tante polemiche per un album controverso e tormentato.
Le canzoni risentono notevolmente della totale mancanza di armonia interna. Sono belle, come negarlo, ma non bellissime.
Arrivano al cuore “Across the universe”, “Let it be”, “The long and winding road”, “Get back”.
Delle altre, invece, si è persa ben presto memoria.
E’ l’ultimo lavoro. Quello che divide per sempre Paul dagli altri 3 e poi, definitivamente, anche gli altri.
Ma ancora oggi, ogni volta, ad ascoltarli si prova un’emozione grande!
di Riccardo Fiori
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