Il gruppo della settimana: S come Simple Minds

Simple-MindsE’ la fine degli anni ’70, quando nel cuore della Scozia (a Glasgow per l’esattezza) il cantante Jim Kerr ed il chitarrista Charlie Burchill danno vita ad una punk band dove, fin da subito, si denotano echi di Roxy Music e [per certi versi] anche dei Genesis.

L’ondata elettronica che sta per travolgere il Regno Unito travolge anche loro: i Simple Minds. Elettronica e punk sono la loro fotografia e questo è palese già dal primo album, “Life in a day”. Insieme a Jim e Charlie ci sono Brian Mc Gee (batteria), Michael McNeel (tastiere), Derek Forbes (basso).

Nati in piena era <<New Romantic>>, da alcuni definiti vacui e pomposi, in contrasto con la musica <<dura e pura>> delle band alternative del momento, i Simple Minds sono invece stati una band che ha offerto (specialmente nella prima parte della loro carriera) notevoli spunti di interesse.

“Real to real cacophony” (cronologicamente il 2° album della loro produzione) del 1980, è in realtà il disco con cui vengono conosciuti. Il suono è più scarno del precedente, ma il risultato è davvero interessante. Si cominciano a notare e ad ascoltare con interesse.

La voce di Kerr è perfetta per brani come “Real to real”, “Factory”, “Premonition”. Sebbene stilisticamente questo lavoro sia lontano anni luce da quello stile che pochi anni dopo porterà il gruppo scozzese alla fama, commercialmente è però un insuccesso.

E nonostante la fase sperimentale prosegua, il gruppo cambia rotta. “Empires and dance” (ancora 1980) è forse tra i lavori più all’avanguardia mai prodotti. E’ il disco più dark dei Simple Minds: c’è la marcia stravolta di “Celebrate”, l’elettrofunk pazzo di “I travel”, la ballata futuribile di “Room” e questi ingredienti sembrano attrarre non poco la critica, ma allo stesso tempo impaurire il pubblico.

“Sons and fascination” e “Sister feelings call” segnano l’abbandono del batterista (McGee), ma soprattutto i primi riscontri interessanti di vendita. Il brano trainante è sicuramente “Love song”, ma in tutto il doppio lavoro si riscontrano ritmiche mai banali e piccoli gioielli che derivano dalla voce di Kerr, la chitarra di Burchill e la freddezza delle tastiere di McNeil.

Poi l’esplosione.

“New gold dream (81-82-83-84)” dell’82, porta la band ad un successo davvero importante. E’ la fase finale di una ricerca durata anni . “Someone somewhere in summertime”, “Glittering prize”, “Promised you a miracle”, sono piccole perle dove il basso di Forbes e la batteria del nuovo entrato Mel Gaynor emergono piacevolmente.

Poi c’è la mai abbandonata elettronica (“Big sleep”, “New gold dream”) ed il risultato è da incorniciare.

“Sparkle in the rain” (1984) è un altro colpo vincente. Sapore pop, ma con un suono particolare: direi quasi sporco. Si tratta di una brusca virata verso il rock.

Ci sono brani che definirei quasi ruvidi, come “Up on the catwalk” e “Speed your love to me” che fanno da tappeto rosso alle ritmiche di “East at easter”, “Street hassle” (di Lou Reed), “Shake off the ghosts”, “Waterfront”.

L’impressione, personale e condivisa da molti, è che cominci però una sorta di competizione assolutamente incomprensibile con gli U2, astri nascenti del periodo. Ma il 1984 porta altre 2 novità: Jim Kerr si sposa con la cantante dei Pretenders (Chrissie Hynde) ed il bassista Forbes abbandona il gruppo. Sembra la fine ed invece è un nuovo inizio.

I Simple Minds producono il brano che darà loro la fama mondiale: “Don’t you (forget about me)”, realizzato come colonna sonora del film “Breakfast club”. Motivo accattivante, molto commerciale, diventa immediatamente una hit colossale in tutto il mondo.

Al tempo stesso, però, porterà la band a passare da gruppo di nicchia a fenomeno di massa. Ed il paradosso è che proprio da quel momento la band comincerà ad avere una perdita d’identità che la porterà ad un’involuzione immeritata ed evitabilissima.

“Once upon a time” del 1985 è il disco che vende più di tutti i loro precedenti lavori messi insieme. Kerr e soci decidono di non includere nel disco la famosa “Don’t you…” (tra l’altro neanche composto da loro…).

Ci sono brani pop-rock melodici bellissimi come “Sanctify yourself”, “All the things she said”, “Once upon a time”, “Oh jungleland”. C’è poi la piacevolissima “Alive and kicking” e la malinconica “I wish you were here”. E’ forse l’ultimo disco davvero bello dei Simple Minds, dove però è innegabile che Kerr insegua l’afflato di Bono e Burchill quello di The Edge.

Brani pop-rock dicevo prima, ma forse molto più pop da stadio che rock, con un’intensità a dir poco epica, per un successo senza precedenti. Talmente tanta popolarità e successo che per la band arrivano addirittura il Live Aid ed un doppio album dal vivo davvero bello, “In the city of light”, a testimonianza di date su date rigorosamente sold out.

E’ però cominciato quel processo di americanizzazione che nuocerà alla band non poco e, soprattutto, in maniera definitiva. Jim Kerr sembra troppo impegnato in progetti socio-politici (come Bono guarda caso) tipo Amnesty International e quando arriva “Street fighting years”, dentro c’è un po’ di tutto questo.

Il disco non piace (personalmente non lo trovo così negativo come è stato dipinto, anche se…), ma risulta imbrigliato dal desiderio di aprire le coscienze ai problemi del mondo. Da citare “Belfast child”, “Mandela day”, “This is your land” (con la partecipazione di Lou Reed). Il tour che ne deriva è comunque un altro gran successo.

Poi ci sono gli anni ’90 e quelli dei Simple Minds vengono ricordati, più che per la musica, per altro. La love story di Jim Kerr con Patsy Kensit, l’abbandono di McNeil e Giblin. Insomma da quel momento i Simple Minds saranno solo Kerr e Burchill; il problema è che non sanno più chi sono.

“Real life” del ’91 avrebbe anche qualche bella canzone (“Rivers of ice”, “Travelling man”, “Stand by love”), ma il suono appare confuso tra pop, progressive e qualche altra influenza non bene identificata, dove perfino la voce di Jim Kerr (al solito piacevolissima) appare, in alcuni frangenti, differente.

L’epoca dei concerti da tutto esaurito è un lontano ricordo. “Good news from the next world” (’95) e “Neapolis” (’98) sono la testimonianza di una band logora che si trascina stancamente e soprattutto senza idee, al punto che il lavoro successivo (“Our secrets are the same”) viene addirittura rifiutato dalla Virgin. Ed è un peccato; un gran peccato.

Gli ultimi album, a cominciare da “Black & white” del 2005, denotano tutti notevoli tentativi, ma davvero poca sostanza. “Broken glass park” è forse l’ultima canzone degna di nota prodotta dai Simple Minds.

Una band con un passato importante e produzioni meravigliose caduta nell’oblio fin troppo presto ed in maniera assolutamente immeritata.

di Riccardo Fiori

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