In un brano del Vangelo vi è un errore di traduzione che ha sortito effetti stupefacenti, servendo alla comprensione del testo più e meglio della più filologica fedeltà.
Per carità, non pensate ad una lezione di linguistica o ad una critica testuale, e men che mai ad un messaggio fideistico.
È una riflessione che mi è sorta spontanea dopo aver sentito una delle solite, povere prediche domenicali dove, come dice Borges, “il commentatore crede di dire meglio quello che Dio non ha detto bene”.
Una riflessione laica sulla provvidenzialità del caso o, se volete, sulla saggezza del tempo che tutto trasforma e tutto rigenera, come in certe rovine archeologiche che nella loro apparente manchevolezza orientano la visione ed aprono orizzonti meravigliosi.
È la grandezza dello Spirito che, come nel pensiero di Cristo, spira dove vuole e tu non sai, come del vento, donde venga e dove vada, ma esso sa, lo Spirito, dove condurre la tua coscienza.
Perdonate la premessa che sembra eludere il tema ma alla fine vi parrà giustificata.
La moltiplicazione dei pani e dei pesci
Il passo in questione è tratto dal vangelo di Giovanni ove si narra il cosiddetto miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Non è una parabola. Non è un passo dottrinale.
È una cronaca, la cronaca d’un fatto singolare nel contesto d’una predicazione di cui il narratore non riferisce nulla. Si racconta di come una modesta e insufficiente scorta alimentare si sia trasformata in una distribuzione di viveri sufficiente a sopperire al bisogno di almeno cinquemila persone.
Il resoconto sembra voler mettere in luce sia la grande affluenza di popolo alla predicazione di Gesù (giacchè mettere insieme cinquemila anime significava svuotare molti borghi e paesi), sia la grande attenzione del santo alle esigenze elementari del popolo e agli oneri e alle difficoltà del quotidiano.
Dice il racconto della passione e venerazione della folla degli accorsi tale da far dimenticare persino la stanchezza e la fame.
Sembrerebbe un passo agiografico. Il credente lo interpreta come una manifestazione contingente di amore di Cristo per i suoi seguaci, simbolo dell’amore eterno del Cristo-Dio verso ogni uomo.
Il non credente ignora l’aspetto miracolistico e passa oltre, interessato soltanto al contenuto delle visioni di quel grande spirito. Ed è questo anche il mio atteggiamento verso il passo evangelico.
Il monito
In quella cronaca d’una “giornata particolare” provata da un disagio collettivo e risolta da un rimedio insperato, si inserisce un monito del Maestro che è un alto messaggio spirituale e che, se non fosse intervenuto l’errore provvidenziale d’un tardivo traduttore, sarebbe sfuggito ai più, relegando quelle parole al rango d’una raccomandazione pratica.
Gesù dice alla folla sfamata: “raccogliete quel che è avanzato (sono dodici ceste, precisa l’evangelista) e che nulla vada perduto”.
Qui il commentatore si può sbizzarrire.
Cosa avrebbe voluto dire Gesù? Che il miracolo è una exceptio vitae e che non si ripete? Che il cibo è sacro e non va sprecato, sia esso frutto di fatica o dono generoso? Che godere del dono fino all’ultimo è gesto di riconoscenza?
Tutto poteva essere ma il testo sembra la raccomandazione di un buon padre di famiglia che sconsiglia gli sprechi.
L’errore
E qui si inserisce il fortunato errore.
Di chi? Di san Girolamo e della sua “vulgata” che è il testo più diffuso e popolare sulla quale si basano le successive traduzioni.
San Girolamo fa dire a Gesù “colligite quae superaverunt fragmenta”. Dove fragmenta, anziché reliquias o altro termine, mal si attiene a resti od avanzi, ma sembra alludere a qualcosa che si è spezzato, che va ritrovato, ricomposto.
Ed è qui che il monito si trasforma.
Raccogliere i frammenti significa avere compassione e rispetto di quel che è stato, ricomporre in quanto possibile ciò che è sopravvissuto al consumo, all’usura, al dispendio. Significa testimoniare il passato, non disperdere un’eredità preziosa per quanto mutilata, tener ferme le origini e le matrici del presente nel mutare turbinoso delle cose.
Grazie Girolamo d’aver tradotto il testo greco, come si diceva a scuola, non “ad litteram” ma “ad sensum”!
Forse Gesù aveva detto quel che ha immaginato Girolamo, forse no, ma il seme di quelle parole ha germogliato nel tempo come il grano di senape della nota parabola.
Di certo il capriccio del Caso o la saggezza della Storia ci hanno consegnato un motto sublime.
Foto di VĂN HỒNG PHÚC BÙI da Pixabay
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