Il Parmigiano del Wisconsin

parmigiano

Non entrerò nella polemica aperta dalle affermazioni del Professor Alberto Grandi sull’autenticità di alcuni simboli della cucina italiana: se il Professor Grandi è arrivato alle conclusioni che ha espresso pubblicamente avrà avuto i suoi buoni motivi.

M’interessa invece un’altra questione: perché è così importante per la nostra cultura contemporanea, per la nostra identità, non solo gastronomica, l’autenticità e l’originalità della cucina italiana o meglio all’italiana?

La «cucina italiana»

La «cucina italiana» prima ancora che un fenomeno gastronomico è un movimento culturale nato nella borghesia a cavallo tra l’Unità d’Italia ed il secondo conflitto mondiale.

Se il regime fascista vi si appoggiò, senza peraltro appropriarsene completamente, fu solo dopo le sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni nel 1935 e l’avvio del processo di italianizzazione del Paese, con la trasformazione dei nomi e dei termini stranieri e dialettali in corrispondenti «italiani», ma quella cucina, sopravvivendo alla caduta del regime ed al tramonto dell’ideologia nazionalista, si è completamente affrancata da quel periodo storico e dalle sue tragiche derive.

Il legame tra la cucina «italiana», l’Unità d’Italia e l’ideologia risorgimentale – con quel «dover fare gl’italiani» dopo l’Unità che ne disvelava la fuga in avanti borghese rispetto a quelle classi popolari se non ostili, come nella sfortunata spedizione di Pisacane ed il massacro che ne seguì, quantomeno indifferenti al semplice cambio di bandiera e di regime narrato da Mimmo Cavallo in «Uh, mammà!» – è palese in tutta l’opera gastronomica di Pellegrino Artusi.

Scriveva infatti Artusi parlando del Cacciucco livornese: «dopo l’unità della patria mi sembrava logica conseguenza il pensare all’unità della lingua parlata, che pochi curano e molti osteggiano, forse per un falso amor proprio e forse anche per la lunga e inveterata consuetudine ai proprii dialetti».

Gli rispose, pur senza citarlo espressamente, Alfredo Panzini nel suo sul suo Dizionario Moderno: «sì mangiando risotto a Milano, come spaghetti a Napoli, o fettuccine a Roma, io mi sento italiano, e godo dell’italianità sì del Barolo a Torino come del Sassella valtellinese: e mi parrebbe peccato guastare questa stupenda varietà gastronomica, né per questo mi sento meno unitario».

Scriverà in proposito Alberto Capatti in occasione del centenario dalla scomparsa di Artusi: «nella costruzione politico-economica dell’Italia, in cui la questione alimentare è il problema nazionale numero uno, la cucina è lo snodo culturale attraverso cui passano le risorse, gli approvvigionamenti, i soldi, i conti e la stessa qualità della vita. Nel gusto e buon gusto, essa rivela valori, quali l’etica dell’economia e del risparmio, così come quella degli investimenti voluttuari e, nelle classi borghesi, il primato della cultura sul bisogno».

Artusi si trovò in un momento storico in cui, parallelamente alla costruzione di un Paese completamente nuovo rispetto alle realtà locali che lo avevano preceduto, si avvertiva da parte della borghesia il bisogno di una «nuova cultura culinaria», come l’ha definita lo stesso Capatti, che si affrancasse sia dalle influenze straniere, ed in particolare francesi, sia dalla cucina prettamente popolare infarcita di dialettalismi e condizionata dai localismi.

Pellegrino Artusi, che in quella borghesia emergente era completamente immerso, seppe intercettare e soddisfare quel bisogno e questo spiega, al di là della qualità delle sue ricette, lo straordinario successo del suo libro che fece affermare a Panzini: «Artusi: per antonomasia libro di cucina» […] «Che gloria! Il libro che diventa nome!».

Di «cucina italiana», peraltro, si può parlare in questi termini solo a partire dal 1929: il 15 dicembre di quell’anno uscì infatti il primo numero dell’omonima rivista di cucina, tutt’ora in edicola, fondata da Delia Pavoni Notari, facoltosa vedova sessantenne dell’ingegner Giuseppe Magnaghi, proprietario di uno stabilimento termale a Salsomaggiore, che aveva sposato in seconde nozze il giornalista, scrittore ed editore Umberto Notari che fu anche il primo direttore della Rivista.

Un legame, quello tra intellettuali borghesi e cucina, che ripetè lo schema dell’epoca artusiana dei gastronomi poeti e scrittori ed in cui i protagonisti della nuova cucina, con l’eccezione di Adolfo Giaquinto, che univa le due qualifiche, non erano cuochi professionisti, ma intellettuali impegnati.

Del «Comitato di degustazione» originario della Rivista fecero parte anche Massimo Bontempelli, Filippo Tommaso Marinetti e Paolo Buzzi e nel corso degli anni alla Rivista collaborarono, tra gli altri, Ada Negri, la poetessa prima Accademica d’Italia, la scrittrice Premio Nobel Grazia Deledda e il poeta Giuseppe Ungaretti, autore anche di una ricetta di spaghetti che ancora porta il suo nome.

Accanto alle ricette ed ai consigli gastronomici la rivista pubblicava infatti anche articoli di donne scrittrici e ricette di poeti come il «Risotto romagnolo» firmato da Giovanni Pascoli.
«Amico, ho letto il tuo risotto in…. Ahi!
È buono assai! Soltanto è un pò futuro
§con quei tuoi: «tu farai, vorrai, saprai!».
Questo è del mio paese, è più sicuro
perché…. presente. – Ella à tritato un poco
di cipollina in un tegame puro.
V’à messo il burro dal color di croco
o zafferano (è di Milano!) a lungo
quindi à lasciato il suo cibreo sul fuoco.
Tu mi dirai «burro e cipolla?»
Aggiungo che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buono odor veniva dal camino!
Io già sentivo un poco di ristoro
dopo il mio greco, dopo il mio latino!
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro;
A lasciato covare chiotto chiotto,
infin ch’à preso un chiaro color d’oro.
Soltanto allora ella v’ha dentro cotto
Il riso crudo come dici tu.
Già suona mezzogiorno; ecco il risotto
il buon risotto che mi fa Mariù
».

Un legame, quello tra borghesia illuminata e cucina italiana, che affonda le sue radici nella letteratura culinaria del lontano passato che vedeva protagonisti letterati e filosofi e che è proseguito sino ai giorni nostri.

La stessa Ada Boni, che nell’anno in cui usciva il primo numero de «La cucina italiana» aveva già iniziato le pubblicazioni della rivista «Preziosa» e nel 1925 aveva dato alle stampe la prima edizione del suo «Il Talismano della felicità» non poteva definirsi una cuoca professionista, ma era un’intellettuale dell’alta borghesia prestata alla gastronomia anche se grazie alle frequentazioni della cucina dello zio paterno – il poliedrico Adolfo Giaquinto che assommava le qualifiche di poeta romanesco, cuoco e direttore della rivista «Il Messaggero della cucina» – padroneggiava le tecniche professionali dell’epoca. Scultore e critico musicale era suo marito Enrico Boni che la sostenne anche nella polemica, postuma, con Pellegrino Artusi.

Esterofilia e localismi della cucina in Italia prima della «cucina italiana»

Alle sue origini, quindi, la «cucina italiana» era, a tutti gli effetti, una moda borghese, non diversa da quelle dell’abbigliamento, della lingua, della letteratura, del teatro.

Una sorta di divertimento per ricchi che sarebbe potuto passare di moda ed in parte lo fu nei termini iniziali visto che a partire dagli anni ’60 del ‘900 la stessa borghesia s’innamorò della «nouvelle cuisine» francese che ancora in parte influenza, quantomeno per alcuni aspetti come quello dell’estetica dei piatti, la nostra alta cucina.

Prima dell’Unità d’Italia, ed in parte lo sarebbe stata anche dopo, l’alta cucina italiana era, al pari di quella degli altri Paesi europei, una cucina internazionale, in cui la maggior parte dei termini tecnici derivava da quella francese e la provenienza estera degl’ingredienti e delle preparazioni era un segno di agiatezza e di ricercatezza e non veniva certo percepita come un difetto.

Le pietanze «alla francese» evocavano raffinatezza, quelle «alla turca» o «alla turchesca» luoghi esotici da mille e una notte, i «coloniali» erano generi alimentari di pregio, come il cacao, il caffè ed alcune spezie, che avevano chiara origine nelle colonie europee in Africa ed in Asia, mentre non si era ancora spenta l’eco dei vari ricettari francesi tradotti in italiano e dei cuochi perfezionati a Parigi.

La cucina popolare, da parte sua, che non aveva alcuna necessità di ricettari e si tramandava oralmente soprattutto in linea femminile, rimase arroccata nell’ambito delle singole realtà territoriali, che convenzionalmente ora chiamiamo regioni, ma che spesso avevano una dimensione molto più circoscritta: si pensi solo alle marcate differenze tra la cucina napoletana e quelle del sannio, del beneventano, del cilento.

Definire statica e conservatrice, impermeabile alle contaminazioni e alle influenze straniere la cucina popolare sarebbe, tuttavia, farle torto vista la chiara evoluzione di alcuni piatti tradizionali e soprattutto la permeabilità della cucina popolare rispetto ai nuovi prodotti d’origine straniera, come le patate, il pomodoro, il mais, il baccalà, il peperone ed il peperoncino, via via prima adottati e poi assimilati al punto da diventare parte integrante della cucina locale.

L’apporto decisivo dei mass media

La prima a comprendere l’importanza dei mass media in cucina è stata Ada Boni che con cadenza settimanale tenne una seguita rubrica radiofonica, ma il salto decisivo avvenne grazie a Luigi Veronelli e Ave Ninchi che nei primi anni ’70, con le due trasmissioni «Colazione allo studio 7» e «A tavola alle 7» (ora disponibili su Raiplay), sperimentarono la competizione ai fornelli tra personaggi famosi, a cui ben pochi si sottrassero, e quella tra il pubblico presente in studio ottenendo, di fatto, quella trasmigrazione dei piatti e degli ingredienti da una regione all’altra che trasformò la cucina italiana da una somma di cucine locali in un affresco corale in cui non era importante che una pietanza fosse migliore delle altre, ma che tutte fossero ben fatte, buone e soprattutto italiane.

Svincolate dagl’incalzanti tempi televisivi attuali, prive d’interruzioni pubblicitarie, arricchite dall’enorme cultura culinaria di Veronelli mediata dalla naturale bonomia di Ave Ninchi, le due trasmissioni si concessero persino il lusso della ricostruzione storica dei piatti, dell’esplorazione documentaristica dei territori, dell’uso della poesia e di fatto diedero alla cucina italiana lustro costruendole quel nobile passato che, in termini strettamente nazionali, probabilmente non aveva mai avuto.

A decretare il successo di quelle trasmissioni televisive, senza sottovalutare l’importanza della competenza degli autori e della simpatia dei conduttori e la natura intrinsecamente popolare della cucina, fu probabilmente l’autorevolezza che si era guadagnato in quegli anni il servizio pubblico radiotelevisivo e sulla quale ironizzerà negli anni ’80 Renato Zero con «Viva la Rai».

E così gli stessi italiani che avevano imparato dalla televisione di «Non è mai troppo tardi» del Maestro Alberto Manzi a parlare e scrivere in italiano aggiungendolo ai propri dialetti impararono da Luigi Veronelli, Ave Ninchi e dai loro ospiti, che proprio grazie alla televisione erano già diventati loro commensali virtuali e abituali, a cucinare italiano aggiungendolo alla propria cucina locale cui peraltro rimasero affettivamente attaccati.

Il «gusto italiano» come elemento identitario e unificante della cucina italiana

Se si guarda ai singoli ingredienti delle nostre pietanze più comuni, dalla pasta col pomodoro alla pizza, dalla polenta di mais ai vari condimenti al pesto, con i formaggi o con le carni di maiale, dal pollo con i peperoni ai vari risotti o agli gnocchi di patate sino ai dolci della nostra tradizione come il panettone, il pandoro, la pastiera napoletana e la cassata siciliana ben pochi, anzi praticamente nessuno, sono di origine italica essendo arrivati da noi in epoche successive dalla Mezzaluna fertile, e quindi dalla Mesopotamia, dall’Estremo Oriente, dall’Africa o dalle Americhe.

L’olivo dei nostri meravigliosi oli extravergini, la vite della nostra ricchezza enologica, il caffè che ci risveglia al mattino hanno tutti origine straniera.

Non è l’origine locale che rende italiana la nostra cucina, ma la sensibilità nel mettere assieme i diversi ingredienti creando delle preparazioni che li distaccano completamente dal loro uso nelle terre d’origine.

Più che di «cucina italiana» si dovrebbe allora parlare di «cucina all’italiana» e quindi di «gusto italiano» (quello che in termini anglosassoni è chiamato «italian flavour») che è certo agevolato dalla straordinaria varietà degli alimenti disponibili nel Belpaese, ma che non si può semplicisticamente ridurre ad un rigurgito nazionalista o ad un sussulto d’orgoglio e d’amor patrio.

La prova di questo assunto è la cucina ebraica italiana, che si differenzia in egual misura sia dalla cucina sefardita, sia da quella askenazita e basti citare il «salame di manzo alla romana» in cui la carne ed il budello di maiale, vietati dalla kasherùt, sono sostituiti rispettivamente dal manzo e dalla pelle del collo di tacchino.

La stessa cucina ebraica italiana capace d’infiniti scambi con le altre cucine italiane del territorio al punto da rendere estremamente difficile, se non impossibile, tracciare i confini tra l’una e le altre.

Parafrasando le parole di Alfredo Panzini si potrebbe quindi dire che sì gustando «all’italiana» pomodoro americano, grano egiziano, riso cinese, olive greche, basilico indiano, melanzane turche, caffè africano addolcito con zucchero arabo, io mi sento italiano, e godo dell’italianità sì della polenta di mais come dei peperoni americani e mi parrebbe peccato guastare questa stupenda varietà gastronomica in nome dell’ossessione delle origini.

È il «gusto italiano» che rende identitaria la nostra cucina, non la provenienza dei diversi ingredienti e da questo punto di vista il fatto che vi sia in Wisconsin un formaggio vaccino che ha mantenuto le caratteristiche esteriori e organolettiche che aveva in passato il nostro Parmigiano reggiano non aggiunge, né toglie, assolutamente nulla, come non aggiungono o tolgono nulla le pizze con l’ananas piuttosto che con i salami pepperoni, gli spaghetti in scatola o conditi con il ketchup e tutte le altre pietanze che noi consideriamo, col gusto italiano, scempi culinari.

È il «gusto italiano» che muove la passione e solletica il talento dei tanti cuochi per diletto di ogni estrazione sociale, professione o mestiere, che nel tempo libero si abbandonano alla cucina e che fece scrivere a Giuseppe Giochino Belli:
«Voi, fijjo caro, ne sapete poco.
Che mme parlate de lingua latina,
Mattamatica, Lègge, Mediscina!…
Sò ttutte ssciaparie: studi pe’ ggioco.
Cqui è ddove l’omo se conossce: ar foco.
Cqui ar fornello un talento se scutrina.
La prima scòla in terra è la cuscina
Er più stimato perzonaggio è er coco
».

E viene in mente il titolo di un fortunato libro autobiografico, recentemente messo in scena, di Vincenzo Salemme: «Napoletano? E famme ‘na pizza!». Perché puoi essere un popolare attore di teatro e di cinema, drammaturgo, regista e sceneggiatore, puoi aver vinto il Premio Flaiano per il Teatro, ma se sei partenopeo e non sai fare una pizza che parliamo a fare?

La pasta da scolare al dente e da gettare nell’acqua bollente e non partendo da quella fredda, il caffè ristretto, il cappuccino come complemento della prima colazione e non del pranzo sono solo alcuni degli esempi di gusto italiano famosi nel Mondo a cui noi per primi siamo visceralmente attaccati anche a costo di scivolare negli stereotipi e nei luoghi comuni.

Quando andiamo all’estero guardiamo con ostilità, se non con aperto disgusto, gli stravolgimenti della nostra cucina, magari proprio da parte dei nipoti e dei pronipoti dei nostri migranti, e siamo pronti ad urlare in faccia ai dissacratori del nostro gusto, come il Checco Zalone di «Quo vado?»: «Non si scrive l’Italia invano!» o a metterci noi stessi ai fornelli pur di ritrovare, con quello che ci capita, il gusto italiano.

Se preparando le «fettuccine all’Alfredo» preferiamo mantecarle con burro d’alpeggio e Parmigiano reggiano vacche rosse stagionato oltre 60 mesi invece che col Parmesan del Wisconsin peccheremo forse sul piano strettamente filologico.

Ce ne faremo una ragione.

Foto di Morana T da Pixabay

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