«Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». Inizia così l’editoriale del primo numero della rivista culturale «Il Politecnico», pubblicato il 29 settembre 1945 e firmato da Elio Vittorini. L’articolo comincia inneggiando a una cultura dell’«impegno», pronta ad avere voce in capitolo nella vita politica e sociale dell’Italia del dopoguerra. Una cultura che oltre a costituire un rifugio consolatorio per uomini colti feriti dalla realtà, si occupi anche «del pane e del lavoro». Tutto ciò senza preoccuparsi di «dare a Cesare», ovvero di lasciare che di attualità si occupino solo i politici.
L’importanza della cultura dell’impegno
D’altronde lo diceva anche Marx: la filosofia (e con lei tutta la cultura) deve contribuire alla trasformazione del mondo, e non limitarsi a contemplarlo e interpretarlo. La cultura dunque non deve più accontentarsi di avere un ruolo passivo come è valso per tanti letterati degli anni Trenta, che scrivevano testi difficili per la loro cerchia e rinunciavano a comunicare con il resto della società. Secondo Vittorini — che trovava in Marx un punto di riferimento fondamentale — è stata proprio la secolare rinuncia della cultura ad un ruolo attivo in senso civile a lasciare che l’umanità finisse nel baratro della guerra.
Questo perché gli insegnamenti impartiti a parole non bastano se non sono sostenuti dalla forza dell’esempio e dei fatti. Sempre nell’editoriale del 29 settembre, Vittorini scrive: «Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato ch’era sacra; lo stesso del pane; lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è anzitutto di questa “cosa” che c’insegnava l’inviolabilità loro. […] Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la cultura».
Il rapporto tra cultura e politica all’indomani della guerra
Questa volontà di recuperare il ruolo sociale della cultura è sottolineata dal nome del giornale stesso. La parola “politecnico” (che ricalca il titolo della rivista di Carlo Cattaneo pubblicata tra 1839 e 1845) non rimanda alla letteratura, ma alla tecnica e a tutti quelle scienze pratiche che hanno un impatto diretto sulla vita sociale. L’aspirazione civile della cultura è perfettamente coerente con il clima di cambiamento volto alla ricostruzione che si profila negli anni in cui «Il Politecnico» viene pubblicato (1945-1947).
Nel 1945 la guerra è appena finita, il regime fascista è crollato e la Resistenza ha trionfato. Le speranze sono tutte riposte in un rinnovamento radicale e totale che deve investire la società anche dal punto di vista culturale. Gli intellettuali sentono un forte senso di responsabilità nei confronti di questo processo di trasformazione, e vogliono parteciparvi in prima persona e liberamente. Vittorini, in particolare, afferma con forza la totale autonomia dell’arte dalla politica; ciò nonostante il PCI — a cui lui stesso era legato — auspicasse una cultura indirizzata dal partito. Questo perché l’intellettuale ritiene che l’arte e la cultura abbiano la forza necessaria per identificarsi con la società, governare con la società e condurre «eserciti per la società» in difesa di valori civili che dovrebbero essere intoccabili.
Foto di Jill Wellington da Pixabay
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