Fra i grandi mecenati del passato che hanno avuto a che fare con l’alchimia, ricordiamo in particolare Raimondo di Sangro, meglio noto come il Principe di Sansevero (1710). Il suo nome ancora oggi fa tremare gli abitanti di Napoli che lo bollarono come “stregone” e troviamo prove delle sue misteriose pratiche alchemiche nella Cappella di Santa Maria della Pietà dei Sangro o Pietatella, da lui commissionata. In questa sede parleremo in particolare del capolavoro d’arte barocca “Cristo Morto”, uno dei simboli d’arte ermetica per eccellenza, in cui il Principe ha voluto riversare i risultati della sua scienza occulta, suscitando ancora oggi la curiosità di studiosi, scettici e pellegrini.
CHI ERA IL PRINCIPE?
Delle svariate attività del Principe si è parlato in abbondanza: come soldato si sa ad esempio che nel 1774, in qualità di colonnello del reggimento di Capitanata, fu impegnato nella conquista della città di Velletri, precedentemente occupata dall’esercito del generale austriaco Lobkowitz.
Sempre in ambito militare, il Principe inventò un cannone in lega di ferro (la maggior parte delle armi era di bronzo) ed un fucile a retrocarica che anticipò l’invenzione del Lefaucheux, l’ideatore della nuova arma. Redasse inoltre un trattato sull’impiego della fanteria, che gli procurò le lodi di Federico II di Prussia, un Vocabolario dell’arte militare di Terra e diversi trattati sulle fortificazioni. Appartenne all’Accademia de’ Ravvivati (con lo pseudonimo di “Precipitoso”) per poi divenire membro della Crusca con il nome di “Esercitato” e il motto “Esercitar mi sole”.
Fu altresì un valente scienziato: inventò un nuovo tipo di archibugio, progettò una macchina tipografica per la stampa contemporanea di più colori, ideò un nuovo modo per filare la seta. Dalla sua mente geniale nacquero inoltre progetti per una macchina idraulica capace di far salire l’acqua a qualunque altezza, una carrozza con cavalli di legno in grado di camminare sia sull’acqua, sia sulla terraferma e una “carta ignifuga”, con un lato di lana ed uno di seta. Grazie ai suoi studi filologici riuscì a decifrare l’alfabeto “cromatico” dei peruviani e si dice che parlasse correntemente tutte le lingue europee, l’Arabo e l’Ebraico.
Anche in campo astronomico brillava per ingegno. Fu lui a collocare sul ponte che collegava il suo palazzo alla cappella, andato misteriosamente distrutto nel 1889, un orologio animato, a forma di drago e dotato di un carillon a campane, che indicava con esattezza oltre all’ora esatta, anche le fasi lunari. Pare che fosse anche dotato di notevoli capacità canore.
L’ALCHIMISTA.
Il Principe fu soprattutto un chimico e un alchimista.
Nonostante gli studi presso la confraternita dei gesuiti, già nel 1750 il giovane nobile napoletano entrò a far parte della Confraternita segreta dei Rosacroce, dove venne iniziato agli antichi riti alchemici e poiché era un personaggio assai stimato, i suoi confratelli lo nominarono immediatamente Gran Maestro di tutto il Regno delle due Sicilie.
Da quel momento i napoletani iniziarono a chiamarlo “stregone”. Come chimico ed alchimista fu in grado di produrre reagenti che indurivano sostanze molli o che rendevano plastici il ferro ed altri metalli “a freddo”; inventò sbiancanti per per colorare il marmo e studiò anche il processo inverso, riuscendo a decolorare i lapislazzuli. Si dice che addirittura scoprì la radioattività naturale con 150 anni d’anticipo rispetto ai coniugi Curie.
Questa notizia emerge da una lettera, sottoposta a regolare perizia calligrafica e ritenuta autentica, datata 14 novembre 1763. La missiva era indirizzata al barone H. Theodor Tschudy (cadetto del reggimento di Svizzeri al servizio del Re di Napoli ed esponente della Massoneria), suo amico fraterno.
In un passo, il Principe parla infatti di un “raggio-attivo” proveniente da un minerale, la “pechbenda” che aveva un effetto mortale sui viventi, come provato dalla sperimentazione sulle farfalle e si poteva “schermare” unicamente con il piombo (“Saturno).
IL LEGAME CON LA MASSONERIA
Intanto, preoccupato dal diffondersi della massoneria nel Regno delle due Sicilie, Papa Benedetto XIV il 15 gennaio 1751 comunicò all’ambasciatore di Carlo III di voler prendere provvedimenti ed istituire a Napoli un tribunale del Santo Uffizio.
Per una strana coincidenza, lo stesso anno non si compì il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro e il popolo, aizzato da un certo frate Guglielmo Pepe, diede vita ad un movimento contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio. Per tali motivi, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emanò la bolla Providas Romanorum Pontificum, che confermava la scomunica alla massoneria già espressa tredici anni prima dal suo predecessore, Clemente XII.
Tra le vittime del provvedimento ci fu anche il Principe di San Severo, il quale, giocando in anticipo, il 26 dicembre 1750 si presentò al re e gli consegnò la lista dei nomi degli affiliati alla sua loggia massonica, insieme con tutti i documenti relativi alle logge presenti nel Regno.
Ad agosto dello stesso anno, tradendo il segreto massonico, il Principe scrisse al Papa abiurando la sua fede massonica e mettendosi sotto la sua protezione. In questo modo si salvò la vita ed il sovrano si limitò ad impartire una “solenne ammonizione” a tutti i massoni napoletani.
Ovviamente fu radiato dalla Massoneria e così dedicò il resto della sua vita agli studi alchemici e alla realizzazione della sua Cappella privata. Secondo la leggenda, nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, membro della confraternita dei Rosacroce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli da “un principe molto amante della chimica”. Facile intuire di chi si trattasse.
Le stravaganti attività del principe contribuirono non poco ad alimentare una serie di leggende: si diceva ad esempio che avesse fatto ammazzare sette cardinali e che con le loro ossa e la loro pelle avesse fatto realizzare altrettante sedie; che avesse ucciso una donna che lo aveva rifiutato e un nano che la difendeva. Sarebbe stato inoltre in grado di metallizzare i corpi, riprodurre la liquefazione del sangue, ottenere sangue dal nulla. Fu pure ritenuto in grado di risuscitare dei gamberetti di fiume essiccati.
LA MORTE LEGGENDARIA
Morì il 22 marzo 1771 dopo aver ingerito delle sostanze tossiche. Almeno secondo le voci “ufficiali”.
Secondo la leggenda invece, durante i suoi esperimenti alchemici, avrebbe scoperto un elisir capace di ridare vita ai cadaveri.
Poiché lo voleva sperimentare personalmente, ordinò ad un servo fidato di tagliare il suo corpo a pezzi e di collocarli in un baule, al cui interno si sarebbe dovuto svolgere il procedimento di rinascita, con metalli nobili dosati con sapienza.
Il baule tuttavia suscitò l’attenzione dei parenti, i quali ritenendo vi fossero metalli preziosi, aprirono il baule prima che si completasse l’opera di ricomposizione.
In quel momento, tra l’orrore dei presenti, il corpo del principe venne fuori con gli organi ancora appena parzialmente collegati tra loro, poichè l’elisir non aveva completato l’opera di ricostruzione.
Dopo aver cacciato un urlo sovraumano, la larva di corpo si disfece e i vari pezzi ricaddero nel baule.
IL CRISTO VELATO ED IL LEGAME CON L’ALCHIMIA
Ma veniamo all’opera incriminata.
Come detto, una delle prove del legame del Principe con l’alchimia è la statua marmorea del Cristo Velato, opera del geniale scultore Giuseppe Sammartino, datata 1753. Nei pressi del palazzo Sangro, al numero 19 di via Fancesco de Sanctis, sorge la famosa cappella Sansevero, chiamata anche Santa Maria della Pietà dei Sangro o Pietatella. La cappella rappresenta una sintesi straordinaria di sapere ermetico, nascosto ad hoc nei complessi scultorei.
L’opera, vera perla dell’arte barocca, da oltre 250 anni suscita l’attenzione di studiosi e viaggiatori increduli dinanzi alla misteriosa trasparenza del sudario che non richiama minimamente alla freddezza e durezza del marmo, ma che ricorda semmai la fluidità della seta. Essa rappresenta appunto Cristo morto, sdraiato su un materasso con due cuscini, quasi fosse addormentato e raffigura i simboli della Passione (martello, chiodi, tenaglia).
Il modo in cui questo velo è stato realizzato rimane un mistero, visto che molti scultori moderni, pur con le attuali conoscenze tecniche, non sono stati in grado di riprodurlo con tale precisione.
Alcuni studiosi sostengono che i veli siano stati ottenuti “cristallizzando una soluzione basica di idrato di calcio o calce spenta”. Secondo la leggenda invece, la trasparenza sarebbe frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” effettuato dal principe di Sansevero, per dare l’idea di un velo poggiato sul Cristo.
Secondo una teoria non ancora pienamente dimostrata, per ottenere tale effetto la statua sarebbe stata immersa in una vasca e ricoperta da un velo, o da una rete, (bagnati) su cui veniva versato latte di calce diluito. Sul liquido sarebbe stato spruzzato ossido di carbonio proveniente da un forno a carbone per ottenere una precipitazione di carbonato di calcio, e cioè marmo, che si sarebbe unito al resto della statua. In realtà, il Cristo velato è una scultura realizzata interrante in marmo, senza l’aggiunta di alcuna escoriazione alchimia.
A fornirne la prova fu il gesto di uno scellerato militare tedesco, che volendo sfatare ogni mito, spaccò con il calcio del suo fucile una parte del “Cristo Velato”. A darne ulteriore conferma del fatto che l’opera sia interamente realizzata in marmo, fu tuttavia Giangiuseppe Origlia, il principale biografo settecentesco del di Sangro, il quale spiegò che il Cristo è “tutto ricoverto d’un lenzuolo di velo trasparente dello stesso marmo”.
La leggenda si è dissolta anche grazie alla scoperta di svariati documenti, tra cui quelli conservati presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, che riportano un acconto di cinquanta ducati a favore di Giuseppe Sanmartino firmato da Raimondo di Sangro.
Nell’Archivio Notarile è stato infatti rinvenuto il contratto tra il Principe e Sammartino, in cui l’artista si impegnava a creare una “statua raffigurante Nostro Signore Morto al Naturale da porre situata nella cappella Gentilizia del Principe, cioè un Cristo Velato steso sopra un materasso che sta sopra un panneggio e appoggia la testa su due cuscini, apprè del medesimo vi stanno scolpiti una Corona di spine tre chiodi e una tenaglia”.
Nel contratto si legge che il Principe avrebbe procurato il marmo e realizzato una “Sindone, una tela tessuta la quale dovrà essere depositata sovra la scultura, dopo che il Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo. Il quale strato di marmo dell’idea del sig. Principe, farà apparire per la sua finezza il sembiante di Nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua”.
Il Sammartino invece si impegnava a ripulire la Sindone per renderla un tutt’uno con la statua stessa e a non svelare a nessuno la “maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricoorente la statua”. Piccola curiosità: nella Cappella si trova anche la lapide tombale del Principe. Si tratta di una grande lastra di marmo interamente ricoperta da una scritta in latino, anche questa opera di Raimondo, i cui caratteri sono tutti in rilievo.
Il corpo del Principe è stato probabilmente trafugato. Nel 1990 dei ladri rubarono undipinto ovale che ritraeva il Principe, collocato tra due angeli in gesso vicino all’altare. L’opera venne recuperata nel luglio 1991 e ci si accorse che qualcuno aveva tentato invano di “restaurarla”. Peccato che Raimondo avesse ideato una formula particolare per i colori (detti oloidrici) per cui sarebbe stato inefficace qualsiasi tentativo di manipolazione.
di Simona Mazza
foto: it.wikipedia.org
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