Mentre l’estate ormai sta per chiudersi e le città iniziano a ripopolarsi, la Parola di Dio, attraverso i suoi contenuti, non cessa mai di provocarci. Presentandoci una sorta di paradosso eclatante, la Parola proclamata in quest’ultima Domenica di agosto sembra confonderci: infatti, coloro che sono considerati “i vicini” non potranno mai sedere alla mensa del Regno perché Dio non li riconoscerà; vi entreranno, invece, “i lontani” che si scopriranno prediletti e godranno della gioia della festa.
Ci domandiamo: “Quanti di noi allora si salveranno?” Mentre il suo ultimo viaggio verso Gerusalemme prosegue spedito, Gesù si sente rivolgere la medesima domanda. Lungo questo itinerario, Egli annuncia, predica, opera i prodigi e cammin facendo non si sottrae all’insidia di qualche domanda che, rivolta appositamente per metterlo in difficoltà, intenderebbe intralciare la sua importante missione. Una di queste domande riguarda proprio la salvezza dell’uomo. Il Maestro allora approfitta di questa circostanza per impartire, anche oggi, il suo insegnamento.
La tematica della salvezza provoca tutti: credenti e non credenti; “Quanti si salveranno e chi si salverà?” sono i quesiti che risuonano spesso nel silenzio del nostro cuore inquieto. Solo Gesù può rispondere a questa domanda e lo fa – come al suo solito – attraverso una parabola che ci parla di una “porta stretta” e di un cuore grande ed universale. Sono temi che fondamentalmente ci indicano una sola verità: si salveranno coloro che avranno avuto una fede genuina e operosa, vivendo appieno gli ideali della giustizia e del bene e coltivando quei valori che rendono l’uomo un cittadino del cielo.
In quest’ambito, cari amici, non vige nessun numero, né alcuna percentuale, nemmeno separazione tra vicini e lontani, ma si nutre solo una grande speranza: tutti si possono salvare purché in vita abbiano condotto una vita santa. Rincuora il fatto che oggi mentre si considera ogni cosa in termini numerici e di statistiche (persino la persona), la salvezza, invece, sfugge a questa logica perversa e risponde solo alla legge divina che, al contrario, ragiona in termini di “qualità”. Non importa, cioè, essere fra i primi; ciò che conta è aver passato la “porta stretta” con fede, realizzando con gioia il sogno di Dio su di noi. Un impegno questo, che non si riduce solo alla messa domenicale ma è costante, feriale; è la scelta forte di un’intera vita vissuta in pienezza, all’insegna della fede, della speranza e dell’amore.
La ritualità della fede, insomma, deve sposarsi necessariamente con la vita; la religione deve sapersi aprire generosamente all’impegno dell’amore per il fratello, alla giustizia e al bene. In altri termini, se la nostra fede non supera definitivamente le circostanze di facciata, non vi è certezza di salvezza. Ce lo conferma Gesù con le sue stesse parole: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta” e impegnatevi seriamente per raggiungere la meta della salvezza. Tutto ciò significa esercitare la difficile arte del credere, un atteggiamento impegnativo e radicale, certamente non riducibile ad uno sterile rituale religioso o ad una distratta affezione verso le cose di Dio, ma significa investire quotidianamente ogni nostra energia per passare attraverso quella “porta stretta”, la sola che rende questa vita degna di essere vissuta.
Allora si scopre che la “porta stretta” non è un uscio o una qualsiasi soglia, ma una Persona da accogliere: è Cristo stesso. In questi termini, l’impegno più grave è quello di essere somiglianti a Gesù il più possibile, perché la “porta stretta” si varca con lo stesso cuore di Cristo, largo, accogliente, misericordioso e capace di commuoversi di fronte ad ogni bisognoso. Avere un cuore largo, quindi, significa possedere dentro sé stessi qualcosa della vita di Dio. E se questi segni sono invisibili al mondo distratto, certamente non lo sono per Dio: Egli li riconoscerà come echi del suo stesso amore e perciò ci spalancherà la porta del suo Regno. Ed anche noi, da figli riconosceremo le braccia tenere del Padre, da innamorati risaliremo alla voce dell’Amato, da creature adoreremo il nostro Creatore.
È questo, carissimi, il traguardo finale della vita: essere riconosciuti per riconoscersi e in Dio ritrovare finalmente se stessi e il proprio cuore. Salvarsi allora significa essere riconosciuti da Dio e riconoscersi in Dio, non perché apparteniamo ad un gruppo, non perché siamo membri di un dato movimento, non perché osserviamo con scrupolosità le leggi sante, ma perché grazie ad un cuore innamorato e fedele abbiamo condotto uno stile di vita umile e semplice. Raggiungere la meta, infine, significa scegliere di lottare, occupando il posto di Cristo, ovvero l’ultimo posto, quello di chi sa servire, il posto di colui che da ricco si è fatto povero per passare attraverso la “porta stretta” della croce.
Ci sia di esempio l’arduo cammino di fede percorso dalla Vergine Maria che “prima tra tutte le creature”, è giunta alla meta della sua vita ed ha ricevuto in dono la corona che vien data in premio ai soli perseveranti. Maria è la Regina del cielo e della terra perché vivendo sempre nel nascondimento a servizio della volontà di Dio, non ha mai scelto il ruolo di prima donna. Nel silenzio che l’ha caratterizzata, ha seguito il suo Gesù sempre con un passo indietro.
Tutto questo ci dona speranza ed è un forte monito: Dio considera grandezza ciò che il mondo stima piccolo e insignificante. La santità allora è il primo frutto dell’umiltà, il risultato di una vita vissuta nell’ombra, lontana dalle telecamere del mondo, ma spesa sotto i riflettori di Dio; ed anche se il mondo non considera abbastanza la bellezza della discrezione, del silenzio e dell’anonimato, l’importante è essere conosciuti da Dio: ultimi in questa vita per essere i primi nell’altra.
di Fra’ Frisina
foto: umanesimocristiano.org
Scrivi