In Il sergente nella neve, Mario Rigoni Stern parla dell’esperienza bellica vissuta in prima persona durante la campagna di Russia. Nel romanzo c’è il bianco della neve, ci sono i termini bellici (battaglione, mitraglieri, caposaldo…), ci sono i morti e i feriti, ci sono le truppe alpine impegnate in una ritirata che finirà per decimarle. D’altronde la vicenda dei soldati italiani che hanno preso parte all’operazione Barbarossa è nota. Stern la ricorda così: «Gli alleati [tedeschi] ci abbandonarono al nostro destino. Fummo circondati: [i russi] dissero di arrenderci e non lo facemmo. […] Eravamo in tanti, migliaia e migliaia: i più non sono tornati».
A questo punto potrebbe sembrare che la dimensione della violenza e del dolore sia dominante nel romanzo, ma non è così. Nella prefazione a Il sergente nella neve, l’autore chiede ai suoi «giovani lettori» di soffermarsi sugli episodi «dove più veri sono la comprensione, la pietà, la generosità: sentimenti che uniscono gli uomini e non li dividono». Questo perché, dice Stern, «quando sembra che tutto debba crollare e morire, un gesto, una parola, un fatto è sufficiente a ridare speranza e vita».
Speranza e solidarietà nella disfatta di Nikolajewka
Oltre alla benevolenza della sorte infatti, sono proprio la speranza e l’attaccamento alla vita che riportano il sergente Rigoni Stern a casa. Durante la terribile battaglia di Nikolajewka, mentre sta guardando la morte in faccia come non mai, il sergente ripete tra sé e sé «Adesso e nell’ora della nostra morte». Sono le ultime parole dell’Ave Maria, quelle che seguono la supplica «Prega per noi peccatori», ovvero prega perché possiamo salvarci (in questa vita o nell’altra).
Mentre il sergente prega per la propria salvezza un grido d’aiuto gli giunge da lontano. Potrebbe ignorarlo e pensare solo a salvarsi la pelle. Eppure non ci pensa un attimo ad attivarsi per soccorrere l’altro. Raccoglie da terra un soldato ferito alle gambe e al ventre. Se lo carica sulle spalle e, nonostante gli costi grande fatica, lo porta dove i proiettili non arrivano. In questo modo dimostra un altro sentimento che spesso si attiva nei momenti di grande difficoltà: quel misto di generosità e di pietà che è la solidarietà.
La narrazione di una condizione umana
Speranza di salvezza e solidarietà percorrono tutto il romanzo e delineano una forma di resistenza alla disumanizzazione imposta dalla violenza, dalla fame e dal freddo. Le ritroviamo in molteplici forme, sia nei momenti più disperati che in quelli di calma apparente. Ad esempio, piena di speranza di salvezza è la domanda che l’alpino Giuanin è solito rivolgere in dialetto bresciano a Rigoni Stern: «Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» («Sergente maggiore, ci arriveremo a casa?»). Giuanin ha bisogno di essere rassicurato nonostante sappia che la precarietà della sua condizione di soldato non ammetta certezze riguardo il futuro. Allora il sergente, compassionevole e solidale, gli risponde: «Sì, Giuanin, ghe riverem a baita».
Il legame di solidarietà e fratellanza che si instaura tra Stern, Giuanin e gli altri soldati rappresenta il cuore pulsante della storia, che soprattutto in virtù di questo si distingue dalla semplice cronaca di una carneficina. D’altra parte a Stern l’aspetto cronicistico non interessa affatto, come non gli interessa esprimere giudizi e condanne. L’intento è un altro e lo enuncia chiaramente nella prefazione: «dovevo dire quello che era accaduto a migliaia di uomini come me in quel dato periodo della guerra. Senza la strategia e la tattica, le scienze della guerra: narrare solamente una condizione umana. Tutto qui».
Foto da Pixabay
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