In una delle tante rappresentazioni di Aspettando Godot, verso la fine del primo atto, compaiono sulla scena un uomo maturo con un cappotto nero lungo fino ai piedi e un ragazzino con una piuma bianca sul cappello che ricorda l’ala di un messo celeste. Sono Vladimiro e il messaggero di Godot. Stanno l’uno di fronte all’altro. Il loro scambio di battute ha la rapidità di una gag comica, ma l’argomento è serio. «Non sei felice?» chiede Vladimiro. «Non lo so, signore» risponde il messaggero. Vladimiro insiste: «Non sai se sei felice o no?»; poi portandosi le mani al volto esclama: «Ah, come me».
L’incertezza e l’attesa
In un dramma fatto di domande aperte e nessuna risposta definitiva, il quesito sulla felicità non può che rimanere sospeso nell’incertezza. Proprio come il tempo («Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà piuttosto domenica?»), lo spazio («Sei sicuro che sia qui?»; «Forse il posto non ti sembra familiare?»), l’arrivo del misterioso Godot («Non ha detto che verrà di sicuro»). E se è vero che dare un senso alla nostra vita fa la differenza tra la felicità e l’infelicità, come si può avere la certezza di essere felici o infelici se la ricerca del senso dell’esistenza non è ancora approdata né al tutto né al nulla? L’indeterminatezza di un’attesa senza fine, ecco cosa mette in scena Samuel Beckett in Aspettando Godot.
Ma chi è Godot? Non si sa, perfino l’autore afferma di non averne idea. L’unica cosa certa è che il suo arrivo potrebbe determinare la salvezza di Vladimiro e del suo amico Estragone. Il messaggero però comunica che Godot per quel giorno non arriverà. Non arriverà mai e nel vuoto dell’attesa Vladimiro e Estragone si agitano sulla scena come marionette dalle battute interscambiabili. In loro non c’è traccia di introspezione psicologica. Passano il tempo tra dialoghi inconsistenti, incontri rari e bizzarri che non aiutano lo sviluppo della trama, propositi di andar via che cadono sempre nell’immobilismo («Allora andiamo?» domanda Vladimiro. «Andiamo» risponde Estragone. Ma non si muovono).
Il teatro dell’assurdo e la scomparsa delle categorie
Il dramma non parla di Vladimiro e Estragone, ma attraverso di loro. Essi sono contenitori senza anima come gli “uomini vuoti” di Thomas Sterne Elliot. Solo che invece di appoggiare «l’un l’altro la testa di paglia» e mormorare con «voci quiete e senza senso», i personaggi beckettiani esprimono l’assurdità dell’esistenza con scambi verbali ironici, dissacranti e spesso declamati. Sono persi in un deserto senza coordinate che termina nel nulla e in certi momenti non possono far altro che gridare, muoversi in modo scomposto, provocare fino a risultare dissonanti come note storte.
D’altronde è del dramma più famoso del teatro dell’assurdo che stiamo parlando. La parola “assurdo” viene dal latino ab-surdus che significa “stonato”, ovvero lontano dai principi matematici su cui poggia l’armonia musicale. Non c’è posto per la razionalità, nel teatro dell’assurdo gli opposti si mescolano e le categorie scompaiono. Così in Aspettando Godot la felicità e l’infelicità si annullano nel non sense, proprio come i concetti di bello e di brutto in un’opera di Duchamp. La disarmonia prende il sopravvento con la stessa violenza con cui la Seconda guerra mondiale ha reso il mondo che Beckett conosceva una scena vuota e desolata.
Foto di Mikes-Photography da Pixabay
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