C’è un settore della Scienza che, ad onta di tanti successi, tante scoperte e tanti luminosi traguardi, si dibatte fra contraddizioni, incompletezze e smentite.
E’ il settore che concerne la rappresentazione della realtà sub atomica, la struttura elementare e primigenia dell’universo, quella che Eddington chiamava “la natura del mondo fisico” .
Lo zoo sterminato delle particelle elementari, la materia e l’energia oscura, l’inconciliabilità della relatività Einsteiniana con la meccanica quantistica sono un campionario dell’immane compito che si impone alla ricerca, uno scampolo del continuo cambiamento degli schemi teorici in cui si inquadra ed un esempio di come si sia ben lontani da quella “teoria del Tutto“ che sembrava prossima a rivelarsi.
Capita allora che l’uomo comune, il destinatario di tanta letteratura divulgativa, si chieda come si senta lo scienziato che veda dissolversi, sotto la pressione di nuove scoperte, la propria rappresentazione del mondo che pure aveva ritenuto felice ed appagante.
Non si pensi ad invidie e smacchi, ma alla sensazione di una precarietà delle soluzioni via via offerte ai problemi della ricerca e all’apertura continua di nuovi scenari che rimanda ad un indefinito domani l’approdo ad una conoscenza teorica definitiva.
Figurandomi un’esperienza di tale natura, ho scritto questa immaginaria confessione di un grande del passato: Ernest Rutherford.
La teoria
Ai colleghi Bohr, Schroedinger e Heisenberg e a quanti continueranno la loro opera concependo nuovi scenari e così smentendo le loro tesi come loro hanno smentito le mie.
Scrivo queste righe pregando che siano divulgate dopo la mia morte.
Chiedo ciò perché non si pensi che le espressioni di delusione siano una vendetta postuma o quanto meno un risentimento verso chi ha demolito la descrizione della struttura dell’atomo da me concepita.
Quando la definii, correggendo e integrando la configurazione di J.J. Thomson, non mi feci l’illusione d’aver formulato una teoria definitiva ma immaginai d’aver offerto al mondo dell’infinitamente piccolo un ordine formale, un’armonia estetica che lasciasse sperare in un imminente traguardo finale.
Quel modello mi sembrava potesse perfezionarsi, arricchirsi, ma non essere smentito.
Poincarè ha scritto: “lo scienziato non studia la natura perché sia utile farlo, la studia perché ne ricava piacere, e ne ricava piacere perché è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena di conoscere e la vita non sarebbe degna d’esser vissuta. Con questo intendo riferirmi a quell’intima bellezza che deriva dall’ordine armonioso delle parti che può essere colto da un’intelligenza pura.”
Ecco, quel sogno di bellezza mi sembrava di realizzare nel mio modello, con quel protone di massa preponderante fisso al centro d’uno spazio pressoché vuoto percorso da ben più piccoli elettroni satelliti disposti su orbite concentriche. Un ordine di moti e di forze riproducente in scala microscopica il disegno grandioso del sistema solare. Vi intravedevo la sublime corrispondenza fra macro e microcosmo vagheggiata dai filosofi, il “sicut in coelo et in terra” dei mistici.
La stessa analogia fra il moto vorticoso che consente ai pianeti di sfuggire all’attrazione gravitazionale del sole e quello degli elettroni che parimenti li ripara dal cadere nell’attrazione elettrostatica del protone mi suggeriva possibili unificazioni delle forze agenti fra le masse dei corpi.
Questo Kantiano cielo stellato nascosto nell’invisibile premiava le mie fatiche e allietava la mia ricerca molto più di quanto abbia in seguito fatto il Nobel assegnatomi nel 1908.
Cosa resta
Di tutta questa teoria resta ben poco: la massa preponderante del protone e il suo rapporto con quella dell’elettrone e ….
Ma è inutile raccogliere i frammenti. Perché tutto quel che fortemente la caratterizzava è stato sconvolto: Il vuoto è divenuto campo, le orbite son diventati stati energetici, la posizione degli elettroni una mera probabilità.
Illustri colleghi, calcoli e prove vi hanno dato ragione e non so per quanto tempo la vostra costruzione teoretica resisterà a nuove rettifiche.
Dal che discendono alcune conseguenze rilevanti.
La prima è che ogni generazione di scienziati vive ed opera in unsistema di conoscenze provvisorie.
La seconda dice che quanto resiste alla confutazione rappresenta il piccolo mattone di un immenso edificio e che nessuno della lunga sequela di costruttori che si succederanno nel tempo umano ne vedrà il definitivo aspetto, all’infuori forse d’un piccolo gruppo di chiamati dell’ultima ora privilegiati dal caso o da un sovrumano o disumano disegno.
Sarà come se una turba di credenti nel corso dei millenni preparasse l’avvento d’un messia a beneficio di un solo ultimo e privilegiato testimone.
La terza è che ogni scoperta, ogni teoria, appare a ciascuno nel suo presente, nella sua pur feconda provvisorietà, nella sua Popperiana falsificabilità, una penosa privazione.
Perché non ci sono parziali verità e non ci possono essere orgoglio e compiacimento per aver tessuto, come una Penelope interinale, una tela che un’altra Penelope disfarà la notte successiva. E non mi si dica che della mia fatica beneficerà un giorno l’Umanità vedendo finalmente il Tutto nella sia inconfutabile verità. L’Umanità è una finzione concettuale, esistono gli uomini, con la loro Individualità cosciente ed è a loro che bisogna riferirsi.
Io sono uno di loro, un filo collocato in un punto indefinibile della lunga tessitura e mi dolgo che la mia fatica di scienziato ne sia soltanto una sia pure utile parentesi. Non rimpiango la mia visione cancellata e non pretendo che risorga, vorrei risorgere io quel giorno della comprensione del Tutto, esserci, vedere il non visto, capire il non capito, raggiungere una fine che sia un compimento.
Allora soltanto sarò grato al mio fertile errore e sorriderò del mio immaginato atomo planetario.
Foto di Pete Linforth da Pixabay
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