«Wine is one of the most civilized things» (Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà) scriveva Ernest Hemingway in «Dead in the afternoon» (Morte nel pomeriggio). Un’affermazione che certo va contestualizzata nell’opera di Hemingway, nella quale il vino, ed in generale le bevande alcoliche, entrano da protagonisti nella narrazione, ma che alla luce di tutta una serie di riscontri è davvero difficile confutare, almeno nella cultura occidentale.
Poche coltivazioni come i vigneti segnano l’antropizzazione del territorio: la stessa regolarità dei filari è un elemento rassicurante per chi osserva, dimostra equilibrio, cura, simmetria, mentre, all’opposto, una vigna abbandonata, più ancora che un campo incolto, trasmette un senso di sgomento, di angoscia, di morte.
Come si è giunti a fare del vino un segno di civiltà? Lo è ancora o è un relitto di un’epoca ormai passata?
Le origini della coltivazione della vite
La vite coltivata (Vitis vinifera subspec. vinifera) è il risultato di una selezione e di un’ibridazione della Vitis vinifera sylvestris, diffusa in varie zone del pianeta da almeno 200 milioni di anni, iniziata, assai probabilmente nel Caucaso, circa 5000 anni fa, anche se i riscontri nell’area mediterranea, quella dalla quale si diffonderà nel resto dell’Europa, datano «solo» dal 4100 a.C..
Cosa abbia spinto alla sua coltivazione, considerato non solo che il bilancio tra lavoro e resa ha un saldo decisamente negativo, ma che i risultati migliori si realizzano riducendo le rese, è ancora in gran parte un mistero che si lega ad un altro interrogativo: il vino è un alimento o un complemento?
Probabilmente aveva ragione Jean Anthelme Brillat-Savarin che ne «La fisiologia del gusto» affermava che sino alla diffusione dei prodotti «americani» (cioccolato soprattutto, ma anche prodotti come lo zucchero ed il caffè che nella colonizzazione delle Americhe trovarono le condizioni ideali, grazie allo sfruttamento degli schiavi africani, per la loro produzione intensiva che ne fece perdere il carattere di cibi di lusso) il vino era stato, tra tutti, l’alimento interclassista dal quale poter trarre il maggior grado di godimento.
A stimolare la produzione del vino allora è stata soprattutto la ricerca del piacere, tant’è che vi è tutto un filone letterario e filosofico improntato alla moderazione nel bere.
Una moderazione relativa se ancora alla metà dell’800 lo stesso Brillat-Savarin poteva affermare che una persona in buona salute potesse tranquillamente vivere a lungo bevendo due bottiglie di vino al giorno: una quantità che, col metro attuale, considereremmo decisamente eccessiva.
I Romani propagatori della vite in Europa
I Romani, che si erano trovati nel fortunato incrocio tra la viticoltura fenicia ed etrusca e quella greca, l’approfondirono fino a farne una scienza, gettando le basi dell’enologia: tutti gli autori di agraria, da Marco Porcio Catone a Lucio Giunio Moderato Columella passando per Varrone e Plinio il Vecchio dedicarono alla cura delle vigne ed alla produzione del vino gran parte dei loro trattati.
La coltivazione della vite, laddove le condizioni ambientali lo permettevano, fu uno dei segni tangibili della presenza romana al punto che la stessa Britannia, che per molti versi rappresenta un contesto alimentare separato dal resto dell’Europa, ne fu contagiata soprattutto nell’aristocrazia e lo rimase anche dopo la scomparsa dell’influsso culturale romano. Ancora durante il periodo della Reggenza bere il vino, soprattutto i chiaretti francesi, ma anche gli italiani, era segno di distinzione e la diffusione tra gli inglesi del consumo dei vini liquorosi dolci, come lo Sherry, il Porto, il Madeira ed il Marsala si deve alla maggiore facilità della loro conservazione durante il trasporto via mare visto che il clima britannico mal si presta alla coltivazione della vite.
Se i Romani concorsero in modo decisivo, certo superiore ai fenici ed ai greci, alla diffusione della coltivazione della vite lo furono ancor di più nello stimolare la produzione del vino del quale erano grandi consumatori in tutte le classi sociali e grandi importatori.
Il Mons Testaceum – la collina artificiale che col suo diametro di un chilometro ed una superficie di 20.000 mq domina il popolare quartiere di Testaccio – eretto con i frammenti delle anfore rotte accidentalmente o volontariamente dopo il trasbordo nei porti fluviali, è composto in parte anche da scarti di anfore vinarie e dà le dimensioni di quella che poteva essere l’importazione del vino nell’antica Roma, mentre delle diverse varietà danno testimonianza soprattutto Orazio e Marziale con vere e proprie schede di degustazione.
Furono i Romani, che a loro volta, secondo quanto narra Giuseppe Averani nell’ottocentesco «Del vitto e delle cene degli antichi», lo avevano appreso dai Greci, a diffondere l’uso del brindisi, cioè del bere alla salute o in onore di qualcuno, anche se la parola italiana deriva dallo spagnolo «brindis» a cui era giunta tramite l’espressione lanzichenecca «der bring dir’s» (porto a te il saluto o il bicchiere).
Oltre ai vini importati, che per giustificare il viaggio dovevano essere di qualità superiore, a Roma si consumava anche una discreta quantità di vino di produzione locale.
Vini prodotti non solo nella zona dei Castelli Romani, che nel tempo diventerà sinonimo di vino popolare, come nella famosa «Nannì (‘na gita a li castelli)» lanciata da Ettore Petrolini a metà degli anni ’20, ma anche all’interno delle ville e degli Horti che costellavano la città ed i suoi dintorni in epoca repubblicana ed imperiale.
I recenti scavi nell’area della Villa dei Quintili sulla via Appia hanno ad esempio portato alla luce un complesso sistema che denotava la produzione del vino all’interno di questa villa favolosa, per impadronirsi della quale Commodo non esitò a far giustiziare i vecchi proprietari, e la sua messa a disposizione degli ospiti mediante un complesso sistema di condotti e di fontane.
A differenza degli Egizi che ne riservavano il consumo solo ai nobili e ai sacerdoti, a Roma il vino era un alimento popolare e lo resterà anche e soprattutto in epoca papalina: anche nella frugale cena belliana de «La bbona famijja» non manca il bucaletto di vino col quale trascorrere il tempo sino a vederne il fondo.
Le tabernae vinarie, progenitrici delle osterie, erano mescite nelle quali s’incrociavano tutte le classi sociali richiamate dai pregi, reali o vantati, dei vini in vendita.
Il vino, che non aveva la qualità che ha raggiunto in tempi relativamente recenti, era quasi sempre annacquato, in taluni casi anche con acqua di mare, per compensarne l’elevata gradazione e molto spesso speziato o, come il Mulsum, addolcito con miele o addizionato, alla maniera greca, con resine.
La quantità era privilegiata alla qualità e questa è forse la ragione per cui la viticoltura di qualità, che in altre zone come il Piemonte, il Friuli, il Veneto e la Toscana ha fatto in Italia da traino ai prodotti locali, a Roma e nelle zone circostanti ha iniziato ad imporsi solo nel XX secolo.
Salvato dalle Abbazie e dalla Roma papalina
Una coltura come la vite che richiede cure costanti ed esperte per tutto il corso dell’anno non sarebbe sopravvissuta agli sconvolgimenti che seguirono la caduta dell’Impero romano se il destino del vino non si fosse indissolubilmente legato, dopo i fasti pagani romani, al sacramento cristiano dell’Eucarestia.
Furono infatti le Abbazie a proseguire la coltivazione della vite e a ricopiare gli antichi testi agrari assicurando la produzione del vino per il sacramento eucaristico.
La mediazione abbaziale, ed in generale religiosa, depurò almeno in parte il vino della sua aura edonista e, associandolo al pane, ne fece prevalere, anche per giustificarne il consumo, le proprietà alimentari trasformandolo in cibo corroborante.
L’abbinamento tra vino e pane come cibo essenziale e frugale permea la narrativa anche recente come nel romanzo «Vino e pane» di Ignazio Silone e ne «Il pescatore» di Fabrizio De Andrè.
La Roma papalina per forza di cose, e di chiese, non si poteva certo privare del vino ed è sotto la lunga dominazione pontificia che Roma conobbe quel fenomeno, tutto romano, delle vigne urbane.
Nella secentesca pianta di Roma di Aloisio Giovannoli colpisce il numero e l’estensione delle vigne che coprono quasi tutte le zone appena fuori le mura e spesso anche quelle aree interne alla cinta muraria che con la riduzione della popolazione seguita alla caduta dell’Impero erano rimaste disabitate.
Una situazione che, come attestano i primi documenti fotografici della fine del 1800 e dei primi del ‘900, resterà immutata sino alla presa italiana di Roma: segno dell’attaccamento dei romani al vino, ma anche della chiusura di Roma e del suo isolamento anche alimentare.
Se si eccettua il vino riservato alla Corte pontificia ed ai più alti prelati, che dopo la cattività avignonese si erano evoluti nel gusto e nello stile di vita, il vino commerciale, che un tempo si riversava a Roma da ogni parte del mondo conosciuto, era in massima parte di produzione locale con una netta propensione per quello dei Castelli, la zona collinare attorno ai Colli Albani naturale propaggine di Roma, e qualche concessione ai vini di Orvieto, di Montefiascone e di Vignanello.
Grandi consumatori di vino i romani lo erano di certo, se solo diamo retta ai sonetti del Belli, ma non erano esperti vignaiuoli dovendo ricorrere, soprattutto nel periodo della potatura e rimanendo nell’ambito dei confini dello Stato Pontificio, all’apporto degli esperti romagnoli e dei riminesi in particolare.
A Roma, forse più che altrove, il vino fungeva da anestetico sociale assecondando il cinismo rassegnato dei romani ai quali, per converso, si poteva toccare tutto tranne le osterie come testimonia l’arrabbiatissimo sonetto del Belli «L’editto de l’ostarie» in cui ci si lamenta dell’ennesima gabella sul vino.
Vino del Rinascimento e rinascimento del vino
Mentre la Roma papalina protraeva anche dal punto di vista enologico quel medioevo che, come ironizzò Gregorovius, sarebbe cessato solo con la breccia di Porta Pia, il resto d’Italia e del Mondo occidentale conobbe con l’avvento del Rinascimento anche una sorta di rinascimento enologico.
Figura di spicco di questo periodo è Sante Lancerio, geografo, storico e bottigliere, per tutto il suo pontificato dal 1534 al 1549, di Papa Paolo III Farnese.
Lancerio, in un breve saggio scritto in forma di lettera indirizzata al Cardinal Guido Ascanio Sforza, descrisse e giudicò con tale appropriatezza e conoscenza i vini da lui assaggiati come bottigliere pontificio da meritarsi il titolo di primo sommelier della Storia.
La sua opera, seppure giunta a noi attraverso ricopiature non esenti da rimaneggiamenti successivi, dà lo stato dell’evoluzione dell’enologia dopo la caduta dell’Impero romano.
Le Abbazie, che inizialmente si erano limitate a ricopiare, tramandandoli, i testi agrari classici, iniziarono a loro volta a sperimentare nuove tecniche di coltivazione e di vinificazione dando particolare attenzione alle caratteristiche dei terreni e selezionando le varietà più adatte in funzione delle peculiarità del territorio e del clima.
Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento il centro della produzione del vino si spostò dall’Italia alla Francia favorita sia dal suo territorio, che al di sotto del 50° parallelo consentiva un’estesa produzione vinicola di qualità, sia dalla crescente importanza internazionale assunta dalla Francia che da questo periodo in poi diventò, nell’enologia e nello stile di vita, simbolo di raffinatezza e di lusso.
La coltura della vite, che era giunta nel Sud della Francia già in epoca preromana portata da greci e fenici, conobbe uno straordinario sviluppo soprattutto per i vini rossi per i quali è rinomata ancora oggi.
Le regioni del Bordeaux, della Borgogna, della Mosella, delle valli del Reno e del Rodano per i rossi e, per i vini bianchi, dell’Alsazia, oltre a realizzare produzioni importanti che ne consentirono l’esportazione, furono veri e propri laboratori enologici nella selezione dei vitigni e nell’affinamento del vino anche attraverso l’invecchiamento controllato.
Tecniche che si diffusero in tutte le aree, comprese ovviamente quelle italiane, sotto l’influenza francese e che gettarono le basi dell’enologia contemporanea consentendo la degustazione in purezza del vino, lo sviluppo delle sue diverse caratteristiche olfattive e gustative e dell’abbinamento mirato del vino con le diverse pietanze sia a tavola che in cucina.
Ad un abate benedettino francese, il celeberrimo Dom Pierre Pérignon, vissuto alla fine del 1500 nella zona della Champagne, è inoltre imputata l’invenzione del vino che ha preso il nome di quella regione e che, sotto molti aspetti, ha rivoluzionato l’approccio con questo straordinario prodotto esaltando il lavoro in cantina, diffondendo le bottiglie di vetro (che sostituirono le botti più piccole) e spettacolarizzando l’apertura delle bottiglie che, per conservarne la parte gassosa, furono chiuse con i tappi sughero.
L’Età della Fillossera
L’età moderna proseguì lo sviluppo dell’enologia rinascimentale, mentre quella contemporanea, che convenzionalmente datiamo dalla Rivoluzione francese, iniziò sotto i migliori auspici per la coltivazione della vite, che si spostò dall’aristocrazia e dal clero alla borghesia attratta dai nuovi mercati rappresentati dalle ex colonie americane ed australiane la cui consistente produzione locale non raggiunse mai i livelli qualitativi europei stimolando l’importazione dei vini europei più pregiati.
Si può dire che intorno alla fine dell’ottocento l’enologia aveva già praticamente raggiunto il livello attuale ed in Italia in particolare erano stati creati quei disciplinari che caratterizzeranno la stabilizzazione dei vini più noti, dal Chianti toscano al Barolo piemontese.
Un vero e proprio flagello, tuttavia, stava per abbattersi sulla coltura della vite: la fillossera.
Un afide giunto in Europa con l’importazione di barbatelle nordamericane ritenute utili a debellare l’Oidio, una malattie della vite, e che nel giro di pochi decenni mise letteralmente in ginocchio il comparto vinicolo europeo ad iniziare da quello francese.
Si stima che solo in Italia più di un quarto delle coltivazioni, concentrato nelle aree di maggiore produzione, fu compromesso o pesantemente danneggiato dal parassita: furono risparmiate solo le zone di produzione di Frosinone, Rieti e Napoli.
Innumerevoli, e senza esito, furono i tentativi di debellarlo fino a quando Thomas Volney Munson, un ampelografo texano particolarmente esperto nella coltivazione e nella selezione della vite americana, suggerì d’innestare le varietà europee su portainnesti di una vite americana rivelatasi resistente al parassita.
La tecnica fu impiegata su larga scala in tutta Europa e consentì la sopravvivenza della vite europea a prezzo, tuttavia, del sacrificio di tutta una serie di vitigni che, per diverse ragioni, economiche e agricole, non furono innestati e scomparvero per sempre.
A tutti gli effetti la storia della vite e del vino si può allora suddividere in un prima ed in un dopo la Fillossera.
Il vino nell’età contemporanea
Pochi alimenti hanno subito attacchi e periodiche demonizzazioni in età contemporanea come il vino, probabilmente perché esso è associato indissolubilmente al piacere in una sorta di contrapposizione alla buona salute. «Balnea vina Venus corrumpunt corpora nostra, sed vitam faciunt balnea vina Venus» (Bagni, vino e sesso corrompono i nostri corpi, ma bagni, vino e sesso fanno bella la vita) recitava un detto dell’Antica Roma.
La risposta culturale a questi attacchi in età contemporanea è stata, e lo è ancora oggi, la consapevolezza nel consumo che in Italia ha avuto quali formidabili divulgatori, grazie anche al servizio pubblico radiotelevisivo, Mario Soldati e Luigi Veronelli.
Il vino attraversa la nostra cultura da millenni, s’è intrecciato con le arti figurative, la letteratura, la poesia, la musica classica e quella leggera, si è legato alla convivialità, ma anche al piacere individuale.
Il vino è interclassista e non conosce confini di genere o di provenienza: è sopravvissuto ai divieti religiosi e alle ideologie del XX secolo e persino, grazie a Francesco Guccini, alla contestazione giovanile che ha cambiato l’approccio borghese agli stili di vita.
Da strumento di seduzione maschile attraverso lo stordimento e la perdita dei freni inibitori delle donne si è trasformato in simbolo dell’indipendenza femminile e mi piace concludere questa carrellata con un motto diventato virale grazie alla rete: «A woman cannot survive on wine alone. She also needs a cat»: una donna non può sopravvivere solo con il vino. Ha bisogno anche di un gatto.
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