Il vitto quaresimale

vitto quaresimale

Con il «Mercoledì delle Ceneri» è iniziato nella Chiesa cattolica di rito romano il periodo di avvicinamento alla Pasqua detto «Quaresima».

Seppure nella Chiesa cattolica la complessità dei precetti alimentari sia andata via via attenuandosi, privilegiandosi, a partire dal Concilio Vaticano II, una maggiore attenzione per quelli spirituali, nella Costituzione Apostolica «Paenitemini» di Paolo VI del 17 febbraio 1966 è stata ribadita l’obbligatorietà del «digiuno corporale» conservandosi il carattere penitenziale del tempo di Quaresima e l’osservanza dell’astinenza dalle carni il Mercoledì delle Ceneri ed il Venerdì Santo.

Non è certo questa la sede per entrare nelle dispute teologiche che hanno attraversato la Chiesa sin dalle origini sul significato e sull’estensione del «digiuno», compendiate e tradotte in lingua toscana in uno scritto della fine del ‘700 di Ludovico Thomassi, sacerdote dell’oratorio di Gesù, intitolato «Trattato dei digiuni della Chiesa».

Il vitto quaresimale, cui nel 1637 dedicò un ponderoso trattato Paolo Zacchia, il medico romano considerato uno dei padri della medicina legale, rappresenta, piuttosto, l’occasione per esaminare uno degli aspetti della centralità culturale del cibo nel mondo occidentale.

Il rapporto dei Romani con il cibo e le prime comunità cristiane

La società romana aveva con il cibo un rapporto sostanzialmente neutro che si evolse in ragione del progredire di Roma anche dal punto di vista economico e dei suoi rapporti con le altre popolazioni con cui entrò in contatto passando da un’alimentazione di stampo prettamente agro-pastorale, a cui più tardi farà riferimento il «mos maiorum», ad alimenti sempre più sofisticati sino a lasciare l’impronta, nell’immaginario collettivo, di una società dedita ad ogni eccesso alimentare e alla ricerca del puro ed illimitato piacere della gola, quando invece la frugalità, cioè la moderazione nel mangiare, era considerata e praticata come una virtù.

Vero è che per i Romani non esistevano preclusioni alimentari, né periodi prefissati di digiuni rituali collettivi i quali invece probabilmente accompagnavano individualmente, come forma di purificazione, l’accostarsi ai riti o la cura di determinate malattie.

Il cibo non era considerato normalmente di ostacolo al rapporto con il divino e in taluni riti gli eccessi di cibo, e di altri piaceri carnali, erano uno strumento per avvicinarsi alle divinità. I riti orgiastici come i baccanali furono gravemente repressi, come accadde con il «Senatus consultum de Bacchanalibus» del 186 a.C. non per motivi religiosi, ma politici vedendosi in essi un pericolo per la stabilità dello Stato, mentre continuarono ad essere celebrati i saturnalia per i quali si dovette mettere addirittura un limite di spesa ai banchetti che nel tempo si fecero sempre più ricchi e sontuosi.

Nel rapporto con gli altri popoli che coesistevano nel mondo romano, ma che, come gli ebrei, avevano preclusioni e dettami religiosi riguardo al cibo, i Romani furono tolleranti se non apertamente indifferenti, ritenendo tali precetti strettamente afferenti alla sfera personale nella misura in cui essi non mettevano in pericolo l’autorità dello Stato.

Per quanto riguarda invece i primi cristiani è possibile notare che nel rapporto con i Gentili, termine che racchiudeva tutte le altre popolazioni non giudaiche del mondo romano, l’apertura verso la totalità del cibo in rottura con le prescrizioni dell’ebraismo rappresentò il primo elemento di sostanziale separazione delle prime comunità cristiane dall’ebraismo in cui erano nate, nonché un fattore di forte penetrazione nella società romana che non avrebbe compreso, né forse accettato, tali limitazioni.

Fino al secondo secolo dopo Cristo lo stesso digiuno preparatorio alla Pasqua si limitò, con funzione purificatrice, ma non penitenziale, ai soli giorni immediatamente antecedenti.

Le cose in seguito cambiarono radicalmente per l’influenza del monachesimo, prima orientale poi occidentale, che concepì un diverso rapporto tra i cristiani ed il cibo.

L’influenza dell’ascetismo orientale e l’insegnamento dei dottori della Chiesa

Sin gli albori del cristianesimo si sviluppò una corrente che possiamo definire ascetica (dal greco antico «ἄσκησις, áskēsis» nel senso di esercizio, allenamento) che propugnava la rinuncia ai piaceri sensibili (che si sarebbero identificati in quelli «della carne») come strumento di perfezione spirituale.

Uno stile di vita fatto proprio dal monachesimo orientale delle origini e che, oltre a colpire la sfera sessuale, che veniva mortificata, s’indirizzava al cibo non solo come totale privazione di esso, ma come selezione del cibo ammissibile riproponendo, di fatto, quel dualismo tra cibi leciti e cibi illeciti, proprio della religione ebraica, che aveva segnato le prime comunità giudaico-cristiane e che era stato un elemento divisivo rispetto alle comunità cristiane che non avevano ascendenze ebraiche.

Avendo a riferimento la Genesi in cui prima del peccato originale Adamo ed Eva si nutrivano esclusivamente di vegetali, si riteneva che questo tipo di alimentazione avrebbe in qualche modo ricondotto ad una condizione spirituale antecedente allo stesso peccato originale e vi fu una corrente di pensiero che riteneva che Gesù e gli Apostoli fossero anch’essi vegetariani: sostenne ad esempio Filosseno di Mabbug, vescovo siriaco del VI secolo, che il loro nutrimento fosse unicamente di pane, legumi e olive.

La questione del cibo finì con l’occupare la dottrina dei padri e dei dottori della Chiesa ed il contrasto dei piaceri della carne, che imponeva l’astinenza dalla carne e dai cibi ad essa legati come uova e latticini, è parte degli insegnamenti di San Girolamo e San Tommaso d’Aquino, mentre nell’ambito del monachesimo occidentale la Regola benedettina, che si diffuse grazie al sostegno di Papa Gregorio Magno, obbligava permanentemente i monaci, ad eccezione dei malati, ad astenersi dalla carne di quadrupedi.

Nella carne, nei suoi derivati come i grassi animali ed in misura minore nei prodotti lattiero caseari e le uova, si vedeva un oggetto di desiderio incontrollabile e quindi causa di concupiscenza, e si orientò l’alimentazione a favore dei vegetali e dei pesci ritenuti meno desiderabili, meno piacevoli e meno inclini a suscitare gli appetiti sessuali e quindi ammissibili. Molto tempo dopo quelle dispute, Brillat-Savarin nel suo «La fisiologia del gusto» osserverà che l’ittofagia sollecitata dai precetti cattolici si rivelava in aperta contraddizione con gli effetti afrodisiaci del consumo del pesce affermando che «queste verità fisiche certo erano sconosciute a quei legislatori ecclesiastici che imposero la dieta quaresimale a parecchie comunità di monaci, come i Certosini, i Francescani, i Trappisti e i Carmelitani scalzi riformati da Santa Teresa; perché non è supponibile che si proponessero di render più difficile l’osservanza del voto di castità già così antisociale di per se stesso».

L’avversione verso la carne si rivelò quindi anche la «questione della carne»: un cibo considerato di lusso e quindi sommamente desiderabile soprattutto da quelle fasce della popolazione costrette dalle ristrettezze a privarsene indipendentemente dai precetti religiosi, ma fu anche «solo la questione della carne» posto che al di fuori della sfera alimentare-sessuale la concupiscenza, di denaro e di potere, non veniva di fatto censurata e sarà proprio su tale aspetto che la riforma protestante insisterà nelle ragioni del proprio dissenso ed acquisirà consenso presso una parte considerevole dei fedeli ai quali propugnerà un modello di virtù cristiana liberato da tali restrizioni alimentari imposte dall’autorità ecclesiastica ed affidate all’autodisciplina individuale rompendo l’unità dottrinaria realizzatasi sino a quel momento nel cristianesimo occidentale.

Con la prevalenza del cristianesimo come religione di Stato e modello di vita imposto d’autorità e con l’estensione ai laici dello stile alimentare monastico la «questione della carne» uscì dall’ambito prettamente religioso per ricadere sull’intera società poiché, come ha evidenziato Massimo Montanari ne «Il messaggio tradito. Perfezione cristiana e rifiuto della carne», l’unico comportamento pienamente degno di un cristiano risultò essere quello del monaco proprio mentre, in forza delle prescrizioni ecclesiastiche i «giorni di magro» arrivavano ad assommare a circa un centinaio l’anno, poco meno di un terzo della sua durata.

Le ricadute sulla popolazione di questi precetti furono molto pesanti non solo in termini di accettazione sociale, ma di sanzione dei cosiddetti profanatori della Quaresima che ben presto finirono sotto la scure del Sant’Uffizio al quale, con la bolla di Papa Innocenzo IV «Ad extirpanda», emessa il 15 maggio 1252 per il contrasto degli eretici e confermata da atti successivi, vennero conferiti pesanti poteri inquisitori che prevedevano anche la tortura, mentre nei Manuali Inquisitoriali fu progressivamente inserita l’indagine sul rispetto dei precetti quaresimali ritenendosi che la loro violazione fosse un indizio di eresia.

Nel «Commentaire sur le livre Des délits et des peines» Voltaire citerà, ad esempio, il caso del nobiluomo Claude Guillon, abitante nelle vicinanze di Saint-Claude nel Giura, che nel 1629 fu decapitato per ordine del tribunale per aver mangiato carne di cavallo durante la Quaresima e, come si vedrà più avanti, il consumo di carne o la sua approvazione anche nel periodo quaresimale porterà alcuni medici davanti al Sant’Uffizio.

Nel corso dei secoli, peraltro, deroghe territoriali o per condizione di vita, non mancarono neppure da parte della Chiesa cattolica. Nel tempo furono esentati dai rigori alimentari quaresimali i ragazzi (ritenendosi tali i minori di vent’anni), i vecchi (con più di 60 anni), i lavoratori poveri che non possedevano terre, casa o altre risorse per assicurare la sussistenza ai propri familiari, i medicanti, le donne in stato interessante, i malati del corpo e della mente, questi ultimi perché ritenuti non in grado di discernere.

Le dispute alimentari sui cibi ammissibili

A guardare con occhio contemporaneo certe dispute teologiche che ebbero ad oggetto i cibi ammissibili nei giorni di magro viene da sorridere, ma in realtà le questioni affrontate apparvero all’epoca serissime, incidendo sulla vita quotidiana delle persone comuni e, soprattutto, disegnando l’insieme delle regole alla cui vigilanza e repressione degli abusi, veri o presunti, erano chiamati gli organi inquisitori anche sulla base di semplici delazioni.

Si ebbero dispute sulla liceità e sulla tipologia dei volatili da consumare, sull’estensione della natura acquatica, che li avrebbe resi leciti, degli anfibi e persino del castoro, sui grassi animali liquefatti, che a rigore si bevevano e non si mangiavano, e sulla carne tritata che, in quanto mortificata, avrebbe perduto il suo carattere carnico.

S’indagò sulla natura degli animali commestibili non già in base alla loro fisiologia, ma al giorno della loro creazione secondo la Genesi.

Indirettamente i «giorni di magro» furono anche uno stimolo per la ricerca dei naturalisti e soprattutto della dietetica: quello dei «Regimina sanitatis» rappresentò un filone medico-letterario medievale molto diffuso che ebbe come capostipite il poemetto «Regimen sanitatis salernitanum» dell’XI secolo ma che però, non essendo improntato ai principi religiosi, si rivelò in qualche modo laico e finì con lo scontrarsi con la dottrina cattolica fino a sconfinare, come illustrato da Alessandra Celati in «Medici ed eresie nel Cinquecento italiano», nell’eresia come nel caso del medico veneziano Pietro Martinello: accusato di mettere in atto comportamenti scandalosi quali il consumo di carne durante la quaresima, fu denunciato nel 1549 davanti al Sant’Uffizio come simpatizzante delle idee riformate e la stessa sorte toccò nello stesso anno al medico istriano Giovan Battista Goineo. Casi non certo isolati in cui le ragioni mediche, soprattutto in campo alimentare, finirono per essere censurate come adesione alla riforma protestante.

Non mancarono, peraltro, esempi di adesione medico-scientifica ai principi dottrinari che avversavano il consumo della carne come il «Vitto quaresimale», il testo del 1637 del medico Paolo Zacchia. Accanto ad esso è possibile menzionare l’«Archidipno, o vero dell’Insalata, e dell’uso di essa, trattato nuovo» del 1627 redatto da un altro medico, l’aquilano Lorenzo Massonio e, in termini strettamente culinari, «Del cibo pitagorico ovvero erbaceo» di Vincenzo Corrado che è del 1781.

Olao Magno e la diffusione dei pesci nordici essiccati, salati e affumicati

È opinione comune che la diffusione anche in Italia dei pesci nordici essiccati, salati e affumicati (stoccafisso, baccalà e aringhe) si debba in gran parte all’influsso sul Concilio di Trento dell’arcivescovo di Uppsala Olaf Manson (italianizzato in Olao Magno), esiliato dal suo paese dalla riforma luterana, e autore della «Historia de gentibus septentrionalibus» pubblicato nel 1555, cioè in pieno Concilio, nella quale egli vantava le virtù e la morigeratezza di tali prodotti che li rendevano adatti anche ai giorni di magro.

Pare, ma nessuna delle biografie consultate lo conferma, che il consiglio di Olaf Manson non fosse completamente disinteressato e che la sua famiglia d’origine avesse interessi commerciali su tali prodotti la qual cosa, se fosse verificata, qualificherebbe l’opera persuasiva di Olao Magno come lobbismo.

È un dato di fatto comunque che da un certo periodo in poi baccalà e stoccafisso siano entrati nei piatti tradizionali italiani e della cucina ebraica, preparati, nei modi più diversi e fantasiosi, anche in quelle zone bagnate dal mare nelle quali più facilmente poteva trovarsi il pesce fresco.

A stimolarne la diffusione è stata sicuramente la conservabilità di questi pesci a temperatura ambiente in casse o barili che, oltre che abbatterne drasticamente il prezzo, compensando la distanza dai luoghi di produzione, ne consentì la diffusione anche al di fuori del mercato del pesce fresco. Ancora oggi, infatti, tali prodotti, all’occorrenza dissalati o reidratati, si trovano anche presso le salumerie e vengono appositamente preparati per la tradizionale vendita del venerdì.

Il «mangiar di magro» nella cucina

La storia cucina popolare è ricca di preparazioni volte a dare più gusto o più sostanza alla dieta quaresimale. Ecco allora tutto un fiorire di unioni tra legumi e molluschi bivalvi detti anche nel loro insieme e con altri molluschi frutti di mare: dalle cozze con i ceci o con i fagioli, ai ceci con le vongole fino alle lenticchie con i frutti di mare.

A seguire l’unione tra pesce o brodo di pesce (ricavato dal pesce più spinoso e quindi meno pregiato) e verdure come gli aliciotti con l’indivia della tradizione ebraico-romanesca, i piselli con il brodo di pesce (citati anche da Aldo Fabrizi) sino alla romanissima pasta con broccoli e l’arzilla, nome popolare della razza, e ad altre preparazioni locali.

Nei giorni di magro trovavano ancor maggior spazio le minestre vegetali, i minestroni, le zuppe e i legumi che in un’Italia contadina e ricca di varietà vegetali, coltivate o spontanee, erano già assai diffuse non tanto per motivi religiosi, ma economici.

Erano preparati inoltre alcuni dolci, che nelle specialità regionali hanno preso l’appellativo di quaresimali perché non contenevano né uova, né grassi animali.

Accanto a queste preparazioni l’inventiva culinaria creò il cibo contraffatto di magro: un cibo preparato e presentato in modo che somigliasse a quello vietato.

Ne sono esempi il cappon magro ligure, in cui pesce e verdure, adagiati su gallette, vengono composti in forma di pasticcio di cappone, e le sarde a beccafico siciliane, composte come la cacciagione da cui prendono il nome ed aventi come ripieno la mollica di pane, mentre con diverse accezioni e varianti si ritrovano nella cucina popolare i sughi o ragù detti «finti» perché sono normalmente preparazioni (solitamente battuti di verdure semplici o arricchiti di erbe aromatiche, patate o cereali), nelle quali la carne, che dovrebbe esserci, è in realtà assente, ma è come se ci fosse.

Nella cucina colta, accanto alle sostituzioni nelle comuni ricette di grassi e uova con ingredienti vegetali, spiccano le invenzioni, assai probabilmente ispirate alla cucina araba, di Maestro Martino. Nel suo «Libro de arte coquinaria» del 1465 si ritrovano ad esempio le «Ova contrafacte in Quadragesima», la «Ricotta contrafacta in Quadragesima», la «Gioncata d’amandole in Quadragesima» e il «Butiro contrafacto in Quadragesima».

Preparazioni che anticipano di qualche secolo certe sostituzioni della cucina vegana contemporanea.

La reazione alimentare smodata nei pasti pasquali ed il nuovo individualismo alimentare

Il giorno di Pasqua, ad iniziare dalle prime ore del mattino con le diverse forme di colazione dolce e salata, passando per i pranzi a base di carne (quasi sempre di agnello) ed i ricchi dolci pasquali a base di ricotta e grassi animali, per finire con le uova di cioccolato, i pasti hanno rappresentato per lunghissimo tempo, almeno per coloro che potevano permetterseli, una sorta di reazione smodata alle restrizioni quaresimali, per giustificare la quale è stata inventata tutta una simbologia che riguarda sia le uova, sia l’agnello: la concentrazione del consumo di cibo nel giorno di Pasqua non ha eguali neppure nel Natale ed in altre festività laiche e religiose.

Negli ultimi cento anni si è poi registrata la prevalenza dello stile di vita laico d’impronta borghese che ha relegato solo agli stretti osservanti il rispetto di quei precetti dietetici così stringenti nel mondo cristiano in epoca medievale e rinascimentale.

Il risultato è uno spiccato individualismo nelle scelte alimentari in ogni periodo dell’anno e la moltiplicazione dei regimi alimentari che coabitano più o meno pacificamente sotto il comune ombrello delle libertà individuali.

La libertà alimentare, che oggi può essere compressa solo per ragioni prettamente sanitarie, è considerata talmente scontata dal non figurare neppure tra quelle normativamente riconosciute.

Si può affermare quindi che nell’occidente secolarizzato il «vitto quaresimale» ha perduto, semmai lo ha avuto, qualsiasi carattere realmente identitario laddove prescrizioni e divieti relativi al cibo rappresentano ancora per altre culture, come l’ebraismo, l’islamismo e l’induismo, un forte elemento di coesione e di riconoscimento.

Foto di debowscyfoto da Pixabay

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