Intervista a Felice Della Corte: il teatro è passione

Il teatro dove incontro Felice Della Corte è il Marconi, di cui è direttore artistico, un piccolo gioiello situato sull’omonimo viale: parcheggio interno, giardino e una comoda sala teatrale. Un’oasi di arte e spettacolo dove si percepiscono in lontananza il traffico cittadino, le incertezze della vita, i mali della politica e persino i problemi che sta attraversando il teatro, soprattutto nell’era del covid; anche se tenerli lontani non basta ad eliminarli, è ovvio. La crisi c’è, inutile nascondersi dietro un dito, ma c’è anche tanta voglia di cambiare le cose, di realizzare spettacoli.

Questa estate, grazie all’impegno profuso da Stefano Delfino nell’organizzazione del Festival di Borgio Verezzi, è andato in scena un mio testo interpretato da Maximilian Nisi, e ho constatato in prima persona la bella energia, la dedizione che ruota attorno allo spettacolo dal vivo, da parte di tutta la grande famiglia teatrale. E tu ne sei un chiaro esempio, Felice. Sei costantemente impegnato come attore, curi la direzione artistica del teatro Marconi e del teatro Nino Manfredi di Ostia, hai lavorato persino ad agosto, mantenendo salda la presenza dello spettacolo nella vita dei romani. In entrambi i teatri da te diretti hai allestito scuole di recitazione e di danza, avvicinando i giovani a questo mondo magico della scena. Il teatro come passione va ancora di moda?

Il teatro come passione non può essere messo in discussione. In quelli che mi piace definire “oltranzisti” del teatro, la passione è un fuoco perennemente acceso. Il grande problema del teatro, soprattutto in questo momento, non tocca chi ha la passione per il teatro, perché costoro non si faranno mai fermare, neppure dal covid; il vero problema risiede negli altri, in tutti coloro che il teatro dovrebbe catturare, irretire, interessare in modo da sviluppare una dimensione importante, perché sono molti e, sotto il profilo economico, rappresentano la forza. Ma per coinvolgerli, per accendere la fiamma della passione anche in loro, serve investire sul teatro con riforme concrete. Forse la disattenzione delle istituzioni che il mondo del teatro sta percependo da anni non dipende da cattiva volontà, ma da mancanza di esperienza diretta. Probabilmente, per legiferare in materia di spettacolo dal vivo, dovrebbe venire interpellato qualcuno che, nello spettacolo dal vivo, si muove da sempre.

Noto che al Marconi c’è una scuola di teatro anche per adulti; un giorno a settimana, dalle 19.30 alle 22.30, se non erro. Sembra molto fattibile. Iniziare il teatro da adulti non è solo un vezzo; in realtà, incide sulla voce, sulla dizione, sulla postura … Ha una funzione meta-teatrale. Potrebbe essere un’ottima base per migliorare la propria comunicazione anche in ambito lavorativo. Che ne pensi?

I Laboratori, oggi, sono una realtà che tutti i teatri hanno giustamente inteso sviluppare, perché sono linfa vitale, sono un bacino di risorse costanti e il teatro ne ha sempre bisogno. Inoltre, le scuole fanno anche da traino per il pubblico. Per quanto riguarda l’applicazione, nella vita quotidiana, delle arti teatrali, concordo pienamente con te: sotto il profilo professionale ci sono vantaggi enormi. Anzi, ti dirò di più: il teatro dovrebbe essere insegnato a scuola, secondo me. C’è bisogno di esperti per capire che la pratica del teatro è di ausilio in molti casi in cui sussistono problemi relazionali o di linguaggio? Attraverso il teatro, si è costretti ad esercitarsi continuamente nel parlare, nel muoversi in pubblico, si acquisiscono vocaboli, si approfondiscono gli aspetti psicologici della vita. È terapeutico. Tutte le volte che liceali od universitari studiano anche teatro, agli esami rendono il doppio, perché, attraverso il laboratorio teatrale, hanno acquisito padronanza di sé, del proprio linguaggio. E tutto ciò si riverbera nel loro futuro, anche se non dovessero seguire la strada attoriale. È un vero delitto che il teatro non faccia parte delle materie di insegnamento. E sicuramente la scuola per adulti tende, in parte, a colmare questo vuoto passato.

Il Marconi ha inaugurato una tradizione che apprezzo molto: prima di ogni spettacolo si canta l’inno e questo ben prima dell’avvento del covid, che ci ha visti un po’ tutti usignoli esauriti e non sempre intonati spalmati sui balconi. Nel tuo teatro, durante l’inno, ognuno è libero di alzarsi in piedi, di restare seduto, di cantare, di tacere. In molti casi l’iniziativa è stata apprezzata, ma c’è stata anche qualche occasionale opinione contraria. Da cosa è nata questa bella tradizione?

Con questa storia dell’inno sono stato oggetto di tantissime critiche. È stato visto da alcuni come una presa di posizione politica. Lungi da me fare politica in questo modo e a teatro. Far cantare l’inno era, in realtà, un modo per creare aggregazione, per giocare. Il teatro è un salotto dove si viene per stare insieme. Il pubblico che ha condiviso anche solo banalmente un canto, è più coeso, più uniforme, più vicino. Inizialmente, avevo pensato di far cantare “We will rock you”, figurati! Ma, poi, ho pensato all’inno di Mameli, perché contiene in sé il seme dell’aggregazione. Inoltre, faceva parlare del Marconi, cosa che non guasta mai. Comunque, ora non lo faccio cantare più. Non per le critiche ricevute, ma semplicemente perché ogni tanto bisogna cambiare. L’inno ha fatto da padrone per due anni, adesso penserò a qualche nuovo strumento aggregativo. Vedremo …

Parliamo di te, Felice. Dal 17 al 19 settembre andrà in scena al Marconi il Festival dei Nuovi Tragici di Pietro De Silva, uno spettacolo composto da monologhi. Sarai in scena anche tu. Il monologo, nell’era teatrale covid, è linfa vitale, perché evita l’eccessiva vicinanza degli attori in scena. Ma c’è molto di più. È una forma di spettacolo che amo profondamente. Nel monologo c’è la possibilità, per l’attore, di esprimere il carattere ma anche il conflitto, riempiendo interamente la scena; c’è una comunicazione a tutto tondo che attinge alla prosa come alla poesia; c’è un’emersione dal sottosuolo, per citare Dostoevskij; c’è un investimento personale molto più intenso. In questo spettacolo, poi, si toccano temi intimamente connessi con l’essere umano nella sua apparenza e nella sua realtà, sollecitato dagli inevitabili cortocircuiti della vita. Me ne parli?

Il “Festival dei Nuovi Tragici” ha una sua tradizione. Era già stato fatto tantissimi anni fa e ne hanno fatto parte molti grandi attori di oggi, come Brignano e Insinna. L’attenzione è focalizzata sull’uomo, attraverso monologhi che presentano personaggi esasperati dalla quotidianità, dai loro problemi personali; problemi che li rendono tragicamente comici. Ecco, noi abbiamo ripreso questa tradizione, rispettandone i canoni e parleremo proprio di cortocircuiti della vita, come li hai giustamente definiti tu.

Cos’altro c’è in serbo nella stagione 2020-2021 per Felice Della Corte?

Il primo progetto, in assoluto, è far ripartire la stagione sia del Marconi, sia del Nino Manfredi. Per quanto riguarda me, invece, è qualche anno che ho preso l’abitudine di dedicarmi a due rappresentazioni, una più impegnata, l’altra meno, ossia rivolta alla comicità, o, meglio, all’ironia. E credo che farò così anche quest’anno, sebbene i programmi non siano ancora ben definiti, dato il momento incerto che stiamo tutti vivendo. Di sicuro, manterrò in piedi lo spettacolo che, nel corso di quest’anno, mi ha dato grande soddisfazione, incontrando un eccezionale favore da parte del pubblico, ossia i “Sei personaggi in cerca di autore”, che abbiamo portato anche in Versiliana con grande successo. Una versione dei Sei Personaggi davvero particolare. Ecco, sicuramente quest’opera verrà ripresa anche nella stagione 2020-2021.

Bene. Vorrei parlare, ora, dei personaggi, gli amici-nemici che accompagnano l’attore e lo possiedono come anime ingombranti nel corpo di un medium.

Quando ti vidi ne Il Fu Mattia Pascal, splendida riduzione a cura di Claudio Boccaccini, con te ed Alessia Navarro, mi innamorai dei personaggi, perfettamente usciti da un romanzo per abitare la scena. Non è facile portare così efficacemente un romanzo in teatro. Claudio è stato un maestro. Tutti voi avete acceso una scintilla di magia. In particolare, tu e la Navarro mi avete regalato delle grandi emozioni. Stesso dicasi di quando hai aspettato Godot insieme a Pietro De Silva, Riccardo Barbera e Roberto Della Casa. E potrei continuare a lungo. Hai un’incredibile capacità di catturare il pubblico. Immagino che, a volte, possa riuscire più spontaneo, altre volte meno. Entrare nel personaggio è un viaggio o un tormento?

Sicuramente un viaggio. Un bellissimo viaggio. Può diventare un tormento se assume la forma di uno psicodramma, perché, a volte, il personaggio può costringere l’attore ad aprire gli occhi su aspetti particolari della sua vita che aveva fino ad allora deciso di ignorare. Ma, anche in questo caso, non è mai una fonte di sofferenza; semmai può essere un dolce tormento. L’interpretazione ti consente di guardarti da prospettive che mai avresti osato sperare ed è una cosa, questa, che può solo migliorarti.

Ancora una domanda, che si affaccia sul finale dell’intervista come fosse il finale di una rappresentazione, perché tocca un elemento essenziale, voluto, cercato, sperato, accolto: l’applauso. Ce ne sono a scena aperta e ci sono quelli a chiusura di sipario. Mi descrivi l’applauso per Felice Della Corte?

L’applauso è tutto e non basta mai. Anche quando è lunghissimo. Se noi attori dovessimo restare mezz’ora in piedi per un applauso, non ci basterebbe comunque. L’applauso è un bagno di gratificazione che fa svanire stanchezza, stress, insicurezze, paure. All’improvviso, senti la pienezza di quello che hai appena fatto, comprendi appieno il significato della tua fatica.

Ed è proprio sull’onda di un applauso silenzioso e sempre meritato, che Felice viene nuovamente catturato nel vortice dei suoi impegni, uno dei quali ha il bel volto di un neonato: Sebastian, suo nipote. Michelangelo Buonarroti fu mandato a balia dalla moglie di uno scalpellino e, ricordando la sua infanzia, amava dire che la sua abilità di scultore era dovuta a quel latte che sapeva un po’ di polvere di marmo. Se il teorema di Buonarroti vale, Sebastian avrà sicuramente un brillante futuro teatrale.

Il giardino si è affollato, nel frattempo. Sono arrivati i membri della giuria di Teatramm, il Festival ideato e diretto da Emiliano De Martino, ospite, in questi giorni, al teatro Marconi. Mi trattengo un po’ in loro compagnia. Bella conversazione, commenti interessanti sulle rappresentazioni del giorno prima, una divertente commistione di “parlato” e di “percepito”. Sono tutte persone con le quali  ci si intrattiene gradevolmente: la splendida e bravissima Yassmin Pucci, attrice internazionale, nipote di Ashraf Pahlavi, che era la sorella gemella dell’ultimo Scià di Persia, dalla quale Yassmin ha catturato lo sguardo magnetico e la capacità di riempire gli spazi che la circondano con la sua sola presenza; Sissi Corrado, giornalista radiofonica che ha il sole nel sorriso e nella voce; la reporter e scrittrice Teresa Comberiato, autrice del libro Il muscolo dell’anima; la travolgente Rossella Pugliese, attrice ed autrice di grande talento, che, in questa stagione teatrale, Roma ha calorosamente accolto con il suo Rusina al Brancaccino; le incantevoli attrici Irene Antonucci, intenso volto televisivo e teatrale, e Maria Lauria, versatile presenza nel cinema, nella televisione e nel teatro in produzioni di grande successo; la giornalista e conduttrice Paola Zanoni e Vitaliano Loprete, protagonista della web serie Single allo sbando. Nella giuria figura anche Mario Parruccini, noto filmmaker, e, naturalmente, Felice, che la presiede. A condurre il Festival la preparatissima Valeria Mafera.

Il tempo vola. È ora, per la giuria, di accomodarsi in sala, e, per me, di tornare al computer a scrivere il resoconto di questo bel pomeriggio al teatro Marconi, un teatro sempre in ascolto delle voci nuove di un’arte in perenne evoluzione e rivoluzione.

Nella foto, di Francesco Nannarelli, Felice Della Corte, direttore artistico del Teatro Marconi di Roma.

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