Leggere. Una buona abitudine, forse una virtù, ma anche un modo di essere; un modo di sentire; un’evocazione d’altre vite nella tua stessa vita; una passione; un viaggio.
Ecco, il viaggio. Qualche anno fa, il generale Luciano Garofano, nella prefazione al mio libro Fiume Bojaccia, scrisse che era un viaggio nel tempo alla ricerca di antichi delitti. La cosa mi fece riflettere, perché avevo scritto un saggio di Storia Criminale; non avevo pensato di trasportare il lettore attraverso il tempo, come in un romanzo. Eppure, entrando io per prima in quelle storie, in quelle vite disgraziate, in quei diversi mondi abitati da sconosciuti che erano diventati amici, l’avevo fatto, avevo aperto un tunnel spazio-temporale.
Einstein l’ha teorizzato, il viaggio nel tempo; e molti grandi fisici si sono misurati con quest’idea. Tuttavia, al momento, l’unico che davvero è in grado di realizzarlo, superando quella barriera infradimensionale che solo il gravitone, forse, può superare, è lo scrittore, perché, sul filo delle sue storie, ti accompagna in altre epoche, ti fa conoscere il passato, il futuro.
Leggere, a volte, significa chiudere un libro e sentirsi cambiati, appropriarsi di ricordi d’altre vite che, solo per aver letto, ti appartengono. Non tutti gli scrittori sono in grado di creare questa magia, però. Martin Rua, sì. Leggere i suoi libri significa viaggiare nel tempo. È arte comune ad ogni bravo scrittore, questa, sebbene assuma ogni volta una connotazione diversa, affatto personale. Proust, ad esempio, attraverso l’arte, cancella il tempo degli orologi, scendendo nelle profondità dell’io; per Balzac il tempo è un modo per guardare all’uomo come essere sociale; il Thomas Mann de La Montagna incantata disegna un tempo circolare che nutre se stesso nel ripetersi, fuori da ogni riferimento ai numeri che ne scandiscono il trascorrere; Virginia Woolf ci accompagna, invece, nel tempo dei particolari. Si potrebbe continuare all’infinito.
Anche Rua sapientemente usa il tempo, sia quello intessuto nella storia, sia quello stilistico, ossia l’armatura temporale del piano narrativo, che traspone nel passato ciò che è in statu nascendi, rendendolo attuale, creando l’aspettativa, l’incertezza, il brivido. Non è propriamente un presente storico, il suo, ma un presente che è tale perché, ciò che accade nel passato, accade al tempo del lettore attraverso il flashback.”Gerusalemme 1118” è questo l’incipit de Le nove chiavi dell’antiquario, il primo volume della Partenope Trilogy, che l’ha portato all’attenzione del grande pubblico, al successo editoriale. Lo stesso ritroviamo nei suoi altri libri, fino agli ultimi due usciti, dove il lettore viaggia nella Linguadoca del 1548 e nella Francia del 1555. Il piano narrativo si sposta nel passato e porta con sé il lettore.
È un escamotage molto usato, ultimamente, soprattutto dagli scrittori di thriller storici od esoterici, ossia quel genere che gli anglofoni definiscono mystic-thriller: vi predomina la componente esoterica, religiosa, magica. Molto usato, ma non sempre in modo corretto. Non è facile, del resto. Questo distingue il bravo scrittore dalla pletora di improvvisati ai quali vengono pubblicati libri mediocri solo perché contengono, nel titolo, qualche parola-chiave del successo editoriale di oggi: “codice”, “mistero”, “enigma” …
Thriller, fedele all’etimo inglese to thrill (eccitare, rabbrividire, tremare), implica suspense, tensione. Il livello di tensione va mantenuto costante lungo tutta la narrazione.
Nei libri di Martin Rua il lettore è sempre in tensione, adagiando la propria coscienza su quella dei personaggi. Per far questo, è lo scrittore stesso che deve entrare nel carattere descritto, sia esso buono, malvagio, sapiente o stolto. La preparazione specifica dello scrittore per il periodo storico di cui narra rende il tutto più credibile, più vero, più coinvolgente. Chi scrive un romanzo storico-esoterico non deve scrivere un saggio, è ovvio, ma deve presentare in modo credibile fatti inventati, e, per farlo, deve affondare le radici della narrazione in dati reali in modo da renderli polla di dati irreali.
Inevitabile il riferimento al Dan Brown de Il Codice da Vinci, che ha fatto esplodere questo affascinante e redditizio filone narrativo. Il libro di Brown parte da alcune considerazioni svolte da Michael Baigent, Richard Leigh e Harry Lincoln nel saggio Il Santo Graal; il suo pregio è averle rielaborate inserendole all’interno di un gioco antico come il mondo, la caccia al tesoro: messaggi e tappe, ricerca, inseguimenti, fughe, raggiungimento della meta. Schema vincente che aggancia il lettore.
Certo, facilissimo scivolare nell’inverosimile, nel particolare collocato in un punto sbagliato, nell’errore. Lo stesso Dan Brown ha alimentato un nutrito sottobosco di libri scritti al solo fine di screditare le basi storiche ed artistiche de Il Codice da Vinci.
Nei libri di Martin Rua è un rischio che non si corre. Pur cedendo correttamente all’invenzione letteraria, alla fantasia narrativa, alla costruzione di una storia che è parto della sua immaginazione, percorre una strada estremamente rigorosa, sotto il profilo delle citazioni storiche ed esoteriche.
Martin Rua è lo pseudonimo di un giovane uomo napoletano che si laurea in Scienze Politiche con una tesi sulla Storia delle Religioni e prosegue, quindi, gli studi approfondendo alchimia e massoneria, che hanno un ruolo di rilievo nei suoi romanzi come nella sua vita.
Le sue storie sono costruite attorno a pilastri inconoscibili, o noti a pochi; a realtà che richiedono una particolare attenzione per manifestarsi; a personaggi che potremmo definire “iniziati”. La struttura romanzesca del thriller esoterico in tale senso è perfetta. Sicuramente in linea con quella d’altri illustri scrittori del genere, come il James Rollins de La città sepolta, lo Steve Berry de La profezia dei Romanov, il prolifico Glenn Cooper de La biblioteca dei morti, nonché la coppia Douglas Preston e Lincoln Child di Relic, ma anche l’Umberto Eco de Il nome della rosa e de Il pendolo di Foucault. Non parliamo, poi, del filone di storie che, negli anni Settanta, hanno dato vita a meravigliosi sceneggiati TV, molti di essi diretti da Daniele D’Anza. Primo fra tutti Il Segno del Comando. Il successo che, ancora oggi, ha questo sceneggiato, questo thriller esoterico dalla struttura narrativa perfetta e recitato da grandi nomi della prosa italiana del tempo, dà contezza di quanto catturi, questo genere di storie. È un filone che ha addirittura cambiato l’approccio del lettore all’arte ed alla storia: nel visitare un museo, nel camminare in una città d’arte, nell’ascoltare una musica antica i lettori di thriller storico-esoterici vanno a caccia di particolari, di simboli. È il grande potere di persuasione del romanzo, quello ben scritto, ovviamente. In qualche modo, invece di riflettere i gusti del pubblico, riesce a crearli, rappresentando una fonte di seduzione; fa nascere mode e tipizzazioni che il pubblico assorbe. Il buon romanzo genera cliché, persino deleteri, a volte: dopo la pubblicazione de I dolori del giovane Werther di Goethe, vi fu un’ondata incredibile di suicidi.
Dopo il grande successo della Partenope Trilogy, composta da Le nove chiavi dell’antiquario, La cattedrale dei nove specchi ed I nove custodi del sepolcro, romanzi che hanno per protagonista un antiquario esperto di esoterismo, Lorenzo Aragona, un novello Indiana Jones della pagina scritta, Martin Rua ha arricchito il panorama delle sue storie, con altre vicende ed altri protagonisti non meno accattivanti. Tra i suoi libri successivi alla trilogia voglio ricordare il romanzo La fratellanza del Graal, la raccolta di racconti, Sette delitti sotto la neve, e la nuova trilogia, di cui è uscito in questi giorni il terzo episodio, la Prophetiae Saga, di cui fanno parte La profezia del libro perduto, L’enigma del libro dei morti e L’ultimo libro del veggente.
Più cupa l’atmosfera di questi ultimi romanzi, anche perché fa i conti con un fondo di paura che cattura tutti gli uomini, a qualunque epoca appartengano: terrorismo, attentati. Alla figura raffinatissima dell’antiquario Lorenzo Aragona si affiancano altre figure non meno incisive, come il commissario François Ozouf. La nuova trilogia si muove sull’onda di profezie che affondano le radici nei tempi d’oggi. Entra a far parte del campionario di personaggi di Rua anche Nostradamus, nonché i cavalieri templari, un sigillo di garantito successo in ogni thriller storico-esoterico.
Oggi incontro l’autore. Non è mia intenzione centrare il focus dell’intervista sulla trama dei libri: è il lettore che deve scoprirla pagina dopo pagina e gustarla fino in fondo. Voglio parlare di Rua scrittore, dunque, di Rua studioso, di quella parte di sé che traspone nei propri libri e che cerca nei libri altrui.
Ciao, Martin, è un piacere conversare con te del mondo che hai creato con i tuoi libri; un mondo pregno di simboli, come, ad esempio, il numero nove che domina la prima trilogia, il sacro tre moltiplicato per se stesso. Mi viene in mente l’Enneade del mio amato antico Egitto, i nove cori angelici e le nove sfere celesti … Cosa rappresenta il nove per Martin Rua?
Il nove il numero della generazione per eccellenza. Nove mesi occorrono perché si formi nel grembo materno un nuovo essere umano e, di conseguenza, ogni impresa che avvenga sotto il segno del nove porta con sé fertilità generativa. Il mio primo romanzo era imperniato su nove chiavi necessarie per riportare in vita (far rinascere) un antico demone. Che compisse il male o il bene era una scelta lasciata ai personaggi, umani e fallibili, della vicenda.
Le religioni hanno una storia scoperta – dogma e mito – ed una sommersa – dottrina segreta e scienza occulta -. Due differenti livelli. Il secondo accessibile solo agli iniziati. E tu hai grande familiarità con il concetto di iniziazione. Ci puoi raccontare la tua propensione per i grandi misteri e per l’alchimia, in particolare? Non è solo una trovata geniale per vendere romanzi. Tu sei una sorta di alchimista del XXI secolo … Come è nata questa passione?
Sono sempre stato affascinato dal lato più discreto della conoscenza, quello nel quale si trovano i più grandi misteri della storia. Per accedere a questo lato nascosto della Gnosi, in genere, è necessario sottoporsi a un’iniziazione: l’alchimia è la dottrina esoterica per eccellenza che richiede questo passaggio. Senza un’adeguata iniziazione, risulta inutile conoscere nomi di minerali e sali da mescolare nel crogiuolo: vagheremmo per anni alla ricerca di una porta da varcare. E comunque no, non sono un alchimista, ma sono al corrente di alcuni piccoli segreti celati nei testi classici di alchimia. Di quelli che fanno perdere il sonno a più di un appassionato.
Nella tua ultima trilogia il lettore è chiamato a muoversi in un mondo di Templari, di misteri legati a Rennes Le Chateau, argomenti di sperimentata attrattiva. Ma c’è anche qualcosa in più che lega la storia ai giorni d’oggi e che va ad accendere l’interruttore di un’inquietudine contemporanea. Come mai questa scelta?
Non potevo tenere fuori dalle mie storie la contemporaneità più brutale, quella costante paura alla quale ci hanno abituato gli attacchi terroristici degli ultimi anni. E allora ho cercato di fondere i temi esoterici a me cari con qualcosa che richiamasse l’attenzione del lettore sulla difficile realtà nella quale ci troviamo a vivere.
Il rapporto tra fratellanza dei liberi muratori, segreti e romanzi. C’è qualche argomento che, sviscerato coram populo in un romanzo, possa infastidire iniziati e studiosi?
Be’, dipende. Se in un romanzo rivelo proprio segreti che un vero iniziato dovrebbe tenere per sé, la comunità degli altri iniziati potrebbe risentirsi. Mi riferisco soprattutto a segreti di alchimia operativa, quelli sui quali da sempre c’è una notevole discrezione. Quanto agli studiosi, ritengo che possano essere infastiditi solo nel caso in cui dovessi prendere una cantonata non documentandomi a dovere. Una cosa che cerco di evitare il più possibile, nonostante il filtro della fantasia mi metta in parte al sicuro da qualche forzatura.
Veniamo al mondo dei libri. Hai una tua ritualità quando scrivi, un tuo ambiente preferito, un orario preferito, oppure il computer occupa il tuo spazio ad orari fissi, come accade in un qualunque lavoro?
Da questo punto di vista sono totalmente anarchico e disordinato. Scrivo quando posso, dove posso, nelle condizioni più disparate. Non posso ancora permettermi il lusso di chiudermi in una stanza a orari precisi e tenere tutto il mondo fuori. E forse neanche mi piacerebbe.
A quale dei tuoi personaggi sei più affezionato?
Lorenzo Aragona mi assomiglia molto, abbiamo un’ironia simile, ci piacciono le stesse cose, ma anche in Luc Ravel c’è tanto di me. Il commissario Ozouf, poi, mi è particolarmente simpatico.
Cosa legge Martin Rua?
I libri più disparati, dai thriller (ovviamente) ai romanzi storici, dai saggi (gli ultimi letti per documentarmi per L’ultimo libro del veggente sono stati particolarmente ostici, testi sull’informatica e la cosmofisica quantistica).
Ecco, a proposito dei tuoi nuovi studi, facciamo un accenno a L’ultimo libro del veggente. Scienza e religione vengono tradizionalmente viste agli antipodi l’una dell’altra. Pensiamo all’abiura di Galileo. Niente di più sbagliato. L’inconciliabilità è solo apparente. Nel tuo nuovo romanzo ti sei accostato alla fisica quantistica, ossia a quella branca della scienza in assoluto più vicina al concetto di anima mundi. Puoi spiegare ai lettori di In Libertà qualche particolare del tuo progetto?
È stato entusiasmante mettere la scienza al servizio di una trama esoterica e viceversa. I miei personaggi inseguono nel corso del libro delle gemme cosiddette gnostiche (credute magiche in epoca greco-romana) che hanno un’importante ruolo nello sviluppo di una delle macchine più interessanti ancora in progettazione in questi anni: il computer quantistico. Studiando, per sommi capi, la fisica quantistica e in particolare quelle sue leggi che governano l’universo, mi sono reso conto di quanto siano infinitamente piccoli il nostro mondo e la nostra vita. Piccoli eppure così preziosi. Non dovremmo mai dimenticarlo: siamo una particella infinitesimale nel cosmo, eppure siamo parte di esse e dovremmo esserne degni.
Hai ragione: non dovremmo mai dimenticarlo. C’è filosofia, nei tuoi libri ed in quel che dici. La letteratura vera ne contiene sempre. Cosa avresti fatto se non fossi diventato uno scrittore?
L’attore, senza alcun dubbio. È stata una delle altre mie più grandi passioni in campo artistico. E non è detto che non ricominci a farlo …
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L’intervista finisce qui, purtroppo, ma, dopo questa affermazione, la curiosità impone una prossima intervista a Martin Rua attore …
Ti ringrazio, Martin, per la tua disponibilità a parlare di te, oltre che della tua arte, e per aver giocato con me anche su concetti arcani, a vantaggio dei lettori di In Libertà.
È in partenza il tour di presentazioni de L’ultimo libro del veggente, che avrà inizio il 24 maggio a Napoli e proseguirà in varie città italiane. A Roma verrà presentato il 7 giugno alla libreria Feltrinelli della Galleria Sordi. Io ci sarò. Buona lettura a tutti!
Non ho modo di contattare Martin Rua. Per cortesia potete rivolgergli la seguente lettera? Grazie.
Riguarda le tre statue, il Disinganno, il Cristo velato e la Pudicizia della Cappella di Sansevero di Napoli.
Da ricercatore a ricercatore: “mani che parlano”.
L’angelo coronato della statua parlante Il Disinganno, che impersona il Vitriol, ovvero il Leone verde, nessuno ch’io sappia lo ha notato, ha le mani che parlano. L’angelo sfiora appena con la mano destra uno scettro che mostra segni vegetali ed è il segno regale, lo Zolfo, che egli ha appena estratto dall’iniziato all’Alchimia Spagiria, col gesto della mano sinistra nell’atto di svelarlo dalla rete che lo avvolgeva nascondendolo.
In particolare si ha modo di scoprire che la posizione del dito indice dell’angelo è giusto a metà dello scettro; inoltre il dito mignolo è nella posizione che divide lo scettro in due parti, una delle quali, quella verso la sfera terrestre, delinea la sezione aurea dell’intero scettro.
Ecco uno squarcio mai esaminato sul conto della statua il Disinganno che fa prospettare due possibili versioni.
La prima versione si lega alle tradizionali operazioni alchemiche: è ancora l’oggi, ma per poco.
La sezione aurea, quale simbolo, rappresenta l’oro alchemico, il segno di regalità e la posizione dell’indice nel punto medio comporta equaminità nel giudicare e rappresenta il fulcro della bilancia della giustizia, appunto.
L’indice è connesso a Giove e a Giunone ed è il dito dell’Autorità, della Giustizia, della Lealtà.
Il mignolo è legato a Mercurio, nel suo aspetto ctonio ed infero. Talora definito come “dito dell’anima”, “dito del pensiero” o “dito delle ombre”.
La seconda versione trascende l’Alchimia e la supera: è il prossimo domani (la profezia).
Le sezione aurea assume le connotazioni di numeri e conseguentemente di scienza, un oro che per il principe Raimondo di Sangro si lega alla sua occupazione di scienziato con le sue macchine anatomiche. Ed ecco un nuovo oro per l’elisir di vita per la longevità.
E conseguentemente il segno dell’indice del punto medio diventa “per mezzo della…” scienza della “sezione aurea” in armonia col cosmo.
Se avessi il vostro recapito invierei, per uno scambio di nuove concezioni, un mio scritto in merito con un certo “sorpasso” mai contemplato sui “paramenti sacri” umani (la rete e i veli) delle tre statue famose di Sansevero.
Ad maiora
Gaetano Barbella
gaetano.barbella@mail.com