Dal 16 al 25 novembre andrà in scena, al teatro Ghione di Roma, Un Autunno di Fuoco di Eric Coble, con Milena Vukotic e Maximilian Nisi, per la regia di Marcello Cotugno. Il testo, tradotto da Marco Casazza e valorizzato dalla scenografia di Luigi Ferrigno, dal disegno luci di Bruno Guastini e dai costumi di Andrea Stanisci, è prodotto da Livia Amabilino per il Teatro Stabile di Trieste.
Si tratta di un’opera davvero interessante, sia per il suo aspetto poetico nel trattare argomenti come vecchiaia e giovinezza, rapporto filiale e genitoriale, passato e futuro, sia per la variegata lettura cui dà adito. È un testo che ne racchiude almeno due, infatti.
Il primo, quello immediatamente fruibile, è costituito da una storia accattivante di cui ho già avuto modo di parlare nella mia recensione di agosto, scritta in occasione della prima rappresentazione nazionale al Festival di Borgio Verezzi; è una tipica dramedy dove il lato drammatico, che sottende momenti di alto lirismo attoriale, si accompagna a quello comico, arguto, sottile, mai banale. La trama è presto detta: una donna anziana, Alexandra, si barrica in casa armata di molotov artigianali, minacciando di far saltare l’intero palazzo a meno che i figli non abbandonino il progetto di ricoverarla in una casa di riposo; uno dei figli, Chris, quello che si è allontanato da vent’anni, senza ripensamenti, con una mai sopita tenacia, riesce a penetrare in casa ed il palcoscenico si riempie amabilmente del loro dialogo, dei loro conflitti, delle loro contrastanti ragioni, dei loro sentimenti taciuti, ingoiati, mistificati, ma ancora presenti.
Il secondo testo è sottilmente psicologico; è scritto sotto le parole, in mezzo alle righe, e concerne il complicato rapporto con gli altri ma soprattutto con se stessi, con le diverse porzioni pulsionali che compongono l’uomo freudiano, volendo addentrarci nella psicanalisi dell’arte.
Chris, nel suo intreccio di affetti familiari, è un novello Amleto. Sigmund Freud indugia molto sul rapporto tra Amleto e la madre, che implica innamoramento edipico; Ernest Jones pone l’accento sul contestuale rapporto tra Amleto ed il padre, che implica una latente omosessualità del primo. Il padre di Amleto è, dunque, destinatario, da parte del figlio, di odio e di amore al contempo. Anche il rapporto di Chris con la figura paterna è altrettanto conflittuale, secondo me. Viene accusato di non essere andato al funerale del padre. Molte potrebbero essere le ragioni, persino un eccesso d’amore che impone di serbare il ricordo della vita e non della morte. Tuttavia lo spettatore iniziato all’introspezione psicologica percepisce solo il suo distacco, l’uccisione metaforica del padre che ben collima con una vicinanza “elettiva” alla madre, con il loro ritrovarsi; con un’improvvisa, irruenta immedesimazione di intenti; con la loro comunione emotiva tradotta in sguardi, condivisioni, e in una danza che è volo e sensualità. Sono lontani ma pur sempre vicini; condividono un’unione edipica, ma sono anche sovrapposti in una tipica fusione d’anime: indipendenza, fuga, originalità, arte, sentimenti. La stessa Alexandra lo confessa: “Ti ho plasmato … e ora sei esattamente come me”. Attraverso quelle parole, la sovrapposizione tra figlio e madre esce dal mondo incosciente per approdare nella realtà. La morte del padre, dunque, non fa che rendere definitivi ed eterni l’amore edipico, da un lato, e la sovrapposizione con la figura materna, dall’altro. Il figlio si discosta dalla madre senza mai allontanarsi veramente. Il loro è un legame esclusivo in cui gli altri figli non entrano, restando al margine della storia come meri nomi, presenze umbratili.
È Chris l’unico protagonista accanto alla madre. Si coglie, dunque, l’importanza delle sue scelte, compreso l’allontanamento da casa; un allontanamento che gli fa assumere le sembianze della luna leopardiana nel dialogo tra Melisso ed Alceta, quella luna brillante che cade sulla terra lasciando in cielo un cratere vuoto. Come la luna, Chris è affascinante, luminoso, ma ha anche un lato oscuro, inconoscibile, che sente di dover esplorare. La sua partenza lascia nella famiglia e, forse, in se stesso il cratere nero della sua assenza. A pensarci bene è quasi onirico il suo allontanamento: è sospeso nel tempo e nello spazio. Il tempo, un tempo lungo vent’anni, viene corretto, in qualche modo, dal suo momentaneo ritorno, in tutto simile ad un infinito presente che non ha mai cessato d’essere. “Sei invecchiato” lo rimprovera la madre nel rivederlo, ma, poco dopo, il ricordo lambisce le rive del presente nel reciproco ritrovarsi. Lo spazio, invece, resta tra loro come una montagna invalicabile; il ritorno lo annulla, ma è solo un effetto transitorio, una nuvola passeggera che offusca il cratere nel cielo: muovendosi nel vento la nuvola si sposta e lo rende nuovamente visibile. Alexandra preferisce ignorarlo, però: sbaglia costantemente il nome del luogo in cui il figlio è andato a vivere, definendolo, così, per quello che è per lei: un qualunque laggiù su cui prevale il “qui e ora” dell’azione scenica.
Anche Alexandra è un personaggio dalla vita psicologica complessa. Trovo che assomigli alla Gradiva di Wilhelm Jensen, la leggiadra figura femminile di un bassorilievo marmoreo attorno alla quale il protagonista, Norbert Hanold, costruisce una storia che lo coinvolge nel profondo: eternamente giovane, con la sua sciarpa leggera e la testa leggermente reclinata in una posa sensuale, Gradiva viene immaginata viva tra la vita varia che doveva averla circondata e, nella fantasia dell’autore, torna a suscitare interesse, amore, passione. Anche Alexandra, prigioniera di un mondo di marmo che le si sta stringendo addosso, prende vita dalle forme di un passato rievocato accanto al figlio: da donna ammalata di vecchiaia si trasforma nella vivace e combattiva donna dei suoi ieri. Anche lei indossa una lunga sciarpa che completa un abbigliamento in grado di raccontarla come originale ed elegante, dotata di stile e personalità. Anche lei vuole essere ricordata vitale. Non vediamo i suoi quadri, ma la immaginiamo dipingere; non vediamo i musei ma li visitiamo con lei e con Chris. In questo la Vukotic è davvero brava: ci fa viaggiare tra i venti di gioventù e le bonacce del declino; stilizza il suo personaggio rendendolo eternamente giovane. Gradiva conduce al delirio chi l’ama; Alexandra nel proprio delirio fa entrare il figlio, salvo poi consentirgli di uscire. È in questo passaggio, un passaggio che Nisi modula meravigliosamente, in modo quasi musicale, che si scioglie il nodo irrisolto del conflitto tra madre e figlio.
Quest’opera può essere letta, vista e rivista cento volte ed ogni volta vi si può scoprire qualcosa in più.
Orbene, è partendo da questo secondo testo, il testo che Eric Coble ha disegnato sull’anima dei personaggi, il testo oltre le parole, il testo tra le righe, che voglio parlare con Milena Vukotic e Maximilian Nisi, i due strepitosi interpreti che ho l’onore di intervistare. Voglio trovare con loro il terzo testo, quello letto, introiettato e vissuto da chi interpreta, da chi ci dona emozioni, perché di emozioni, credetemi, Milena Vukotic e Maximilian Nisi ne donano davvero tante. Ma non voglio che la mia sia una semplice intervista; voglio trasformare questo articolo in un palcoscenico e portarli con me all’interno dei personaggi e di loro stessi, riportando alcuni brani del copione.
Alexandra – Decenni di occasioni, e adesso è troppo tardi, hai perso il treno, non ti vogliamo, non ci servi, puoi infilarti la tua misera codina tra quelle gambe flosce e filartela come il coniglio che sei, come hai fatto sempre. Vai! Vattene!
Il brivido di rivedere un figlio dopo vent’anni; la rabbia per vent’anni di silenzio; l’ammirazione e forse l’invidia per un allontanamento più tenace di quelli che hanno caratterizzato il proprio passato; la consapevolezza che il figlio è tornato per farle fare qualcosa che non vuole fare. Cosa prevale in Alexandra quando recita questa battuta?
Milena Vukotic – Forse tutte queste cose insieme. Sicuramente Alexandra ama molto il figlio, lo vede quasi come un complemento di se stessa, una sua evoluzione. Probabilmente non c’è invidia ma ammirazione nella permanenza del figlio in quel luogo lontano, che lei rifiuta persino di menzionare, il luogo che egli ha eletto come sua casa, trovandovi nuove radici. Tra loro esiste un’unione solida che va al di là dei conflitti e si compone nell’amore.
Il plurale che usa si riferisce agli altri figli o c’è anche il marito scomparso, il padre di Chris?
Milena Vukotic – Per quanto riguarda l’uso del plurale, la mia Alexandra si riferisce sia agli altri suoi figli, sia al marito defunto. Gli altri suoi figli come appendici di lei madre ed il marito come appendice di lei moglie, però. Solo Chris, infatti, è il suo Chris; ed è tornato per lei. All’improvviso Alexandra viene trasportata in un mondo di condivisione intima che si era lasciata alle spalle, un mondo in cui lei e Chris parlano, si muovono, mangiano, bevono, fumano la pipa, danzano. E’ questo ciò che conta nella sua realtà di quel momento, la realtà di quella fase della vita, improntata a recuperare se stessa attraverso il ricordo. C’è un relativismo imperante nelle diverse realtà di Alexandra, che corrispondono alle diverse fasi della sua vita: ognuna racchiude un mondo. E’ così per tutti, in fondo.
Chris l’ha ferita di più andando via o tornando per strapparla alla sua casa, ai suoi ricordi?
Milena Vukotic – La ferita … la ferita che Chris produce è sicuramente quella di volerla strappare alla sua vita, quella di uniformarsi al volere degli altri figli che lei sente estranei. Non è ferita dalla sua fuga, perché lei stessa, in gioventù, ha assaporato identico piacere nel volare via, tra un’esperienza e l’altra, lontana dalla sua casa e dagli affetti familiari. È ferita dallo strappo, dallo iato che percepisce tra il suo mondo e quello del figlio, nel momento in cui il figlio si discosta da lei per sposare le ragioni degli altri.
Chris – Vuoi sapere perché non sono mai tornato? Perché so che venire in questa casa è come incontrare le streghe del Macbeth! Qui vedo il mio futuro, un incubo agghiacciante che mi fissa con i tuoi occhi da pazza. Ecco cosa diventerò, questa sarà la mia vecchiaia, ed è peggio dell’inferno!
Freud accosta pulsione sessuale ed autoconservazione dell’Io -che diventeranno, poi, Eros e Thanatos, vita e morte – attraverso la figura della strega faustiana, poiché vede nel suo antro, nel suo calderone il ribollire del pensiero psicanalitico. La strega è madre; la madre, al pari dell’Eros, genera vita e lo fa non discosta dall’inferno delle pulsioni primordiali. Shakespeare è un anticipatore della psicanalisi freudiana e Chris richiama Shakespeare per traslato, accostando la propria famiglia alle streghe del Macbeth. Secondo te individua le streghe nella famiglia, in se stesso all’interno della famiglia, o nelle sue paure, nelle immagini perturbanti di ciò che è, di ciò che vorrebbe essere e di ciò che teme d’essere?
Maximilian Nisi – Sicuramente Chris vede le streghe del Macbeth nella famiglia, coacervo di persone che lo trascinano nell’antro, lo ancorano tra le pareti della grotta primordiale, ma le vede anche nel percepirsi all’interno di quella grotta, dove si sviluppa la paura di non riuscire ad essere se stesso. È vero, però, che l’antro della strega faustiana ce lo portiamo dentro ovunque andiamo. Allentiamo le maglie della catena, rendiamo l’ancora più leggera, ma non ci allontaniamo mai veramente. Forse perché siamo il prodotto di quell’antro. Nasciamo da lì …
Chris – Ci sono modi belli e modi orribili per morire
Alexandra – E io ho stabilito che per me morire in questa casa è un modo bello
La casa come carapace, come guscio protettivo, utero che ricongiunge il cerchio della vita: nascita e morte. Cos’è la casa per Alexandra e Chris e cos’è la casa per Milena e Maximilian, attori spesso in tournée, in viaggio, legati a tanti luoghi, a tante persone, a tante realtà?
Milena Vukotic – Per Alexandra la casa si trasforma da prigione a culla. Dapprima critica il marito per averla voluta acquistare, imponendole radici che lei, donna libera e girovaga, non avrebbe voluto piantare; poi non riesce a discostarsene, vuole morire lì, tra i ricordi che le stanno scivolando via. È come se quella casa improvvisamente sia in grado di supplire, attraverso gli oggetti, l’albero, le stanze, alla sua memoria evanescente, sebbene, poi, con gli oggetti inizi anche ad avere un rapporto conflittuale, pensiamo ai quadri. La sua vita si sta muovendo su un binario che conduce nella nebbia e lei si ancora il più possibile ai punti fermi che la circondano.
Per me, invece, la casa è un approdo sicuro, anche se devo dire che, per esprimermi con un gioco di parole, ho più di una casa in cui mi trovo a casa. Come attrice sono abituata ad un mondo che cambia. La casa rappresenta la stabilità e mi piace, ma non ne resto schiava, non la considero un carapace da portarmi dietro. Ho più di un luogo dove mi sento avvolta in un’intimità familiare: mobili diversi, oggetti diversi, diverse stanze, diverse comodità, ma eguali sensazioni.
Maximilian Nisi – Chris vede la casa di sua madre – e della sua infanzia – semplicemente come un appartamento in una palazzina d’epoca. Si rimane di stucco quando lo dice, perché parla della madre che vorrebbe uccidersi facendo saltare in aria la casa e l’unica frase che riesce a pronunciare è “Non si fa saltare in aria una palazzina d’epoca …”. In queste sue parole c’è un apparente distacco per la scelta suicida della madre – apparente perché è lì proprio per impedirlo – e c’è il distacco profondo per quella casa che rappresenta il passato familiare, o, meglio, c’è il rifiuto per quelle mura pregne di conflitti, che non riesce a definire in altro modo se non con una terminologia da immobiliarista.
La casa per me, invece … Cielo! Il mio lavoro mi ha fatto crescere gatto randagio. Mi piace la casa, il ritorno è una sensazione bellissima, l’allontanamento è quasi struggente, ma dormo bene anche sotto la luna.
Chris – … Sei sempre stata te stessa ovunque fossi. Non ti sei mai legata ad un posto …
Alexandra – … Tu te ne sei andato e continui ad andartene. È l’unica cosa che sai fare
Entrambi i personaggi hanno alle spalle una vita di distacchi e ricerca. Per la vostra sensibilità di artisti si tratta di una vita randagia e romantica o di una fuga?
Milena Vukotic – La vita inizia sempre con un distacco, già nello svezzamento. Direi che lasciare la famiglia di origine per inseguire i propri sogni, i propri talenti è l’apice di un’evoluzione interiore, di una ricerca di se stessi. Non mi potrei vedere statica nemmeno adesso. È errato, tuttavia, usare il verbo “lasciare”: la famiglia, gli amici non si lasciano mai. Si gira il mondo, ci si guarda intorno, si conoscono gli altri e attraverso gli altri se stessi, ma non esistono veri abbandoni. Gli affetti autentici restano dentro di noi sempre, persino quando la morte ce li porta via. C’è del romanticismo in tutto questo, ne sono sicura.
Maximilian Nisi – Anche io, come Milena, punterei sull’aspetto romantico della vita randagia, una vita di scoperte, di rapporti umani meravigliosi, di ricchezza interiore. La vita è movimento costante. Ce lo insegnano persino gli atomi di cui siamo composti, le particelle primordiali del Big Bang che hanno formato l’universo. Muoversi significa introiettare esperienze, porzioni di sé negli altri. La vita è un magnifico road movie, a volte, che induce non già a lasciarsi alle spalle la famiglia di origine ma ad estenderla attraverso i nuovi affetti che si incontrano e che iniziano a far parte della nostra esistenza, della crescita, a volte sovrapponendosi in ruoli familiari, altre volte coinvolgendoci in avventure passionali, altre volte ancora affiancandoci nell’amicizia, dove le spalle dell’uno toccano quelle dell’altro, dandosi sostegno a vicenda.
Alexandra – Chris, ho chiesto verità in questa casa …
La verità. Aletheia. Il non – nascondimento. Spesso sopravvalutata, perché vestita di un’aura di assolutismo che non le appartiene, la verità, nel mondo del teatro, assume sfaccettature diamantine: ognuno sembra avere la propria e non solo in Pirandello. Freud, che ormai, a quanto pare, sta scrivendo quest’intervista con me, la parcellizza nelle diverse istanze dell’Io, del Super-Io e dell’Es. Che rapporto hanno Alexandra e Chris con la verità? La desiderano ma non la raggiungono o riescono ad incastonarla nella loro vita? E qual è la loro verità?
Milena Vukotic – La verità di Alexandra, l’Alexandra anziana, quella armata di molotov, è una verità a metà, innanzi tutto: è consapevole del tempo che sta cancellando una parte della sua esistenza, ma si chiude a questa consapevolezza, la rifiuta: sono gli altri a sbagliare, sono gli amici che barano a carte, sono i figli che mentono, che vogliono confonderla. Tuttavia, credo che, anche da anziana, riesca infine a raggiungere una sua verità, così come l’aveva raggiunta da giovane, incastonandola – mi piace questo termine perché evoca pietre preziose e la verità è la più preziosa di tutte – nella propria vita di artista, di donna libera, di moglie, di madre. Alexandra ha tante verità, come ognuno di noi: questa è la sua unica verità!
Maximilian Nisi – La verità … La verità è un animale fantastico, come quelli che si trovano nei bestiari medievali o nei libri della Rowling: metà qualcosa e metà qualcos’altro. Sicuramente metà angelo e metà demone. La verità è bellissima e crudele, è incisiva come una lama affilata, ma non se ne può fare a meno. Il mio Chris non può vivere lontano dalla verità. La sua partenza, la sua vita sono frutto della verità che gli ha insegnato Alexandra. La verità è essere se stessi, è non imporsi cambiamenti indesiderati, né imporli agli altri. La verità risiede in un animo libero. Chris lo è, sebbene anche lui, come tutti, non conosca una verità assoluta, perché assoluta non è neanche la libertà, per gli esseri umani.
Si conclude qui questa breve “intervista scenica”. Ringrazio questi due grandissimi attori, strappando la promessa di avere presto Milena Vukotic sulle pagine del mio giornale, per una chiacchierata sulla sua ricchissima ed affascinante carriera di attrice teatrale, cinematografica e televisiva, ivi compresi i suoi bei ricordi di quando era una leggiadra danseuse a Parigi.
Per il momento non perdetevi l’occasione di applaudire lei e Maximilian Nisi in questa splendida, emozionante pièce, in cui sorrisi e commozione accompagnano il pubblico, in cui si anima un mondo fatto di affetti profondi e di valori, di esperienze che compongono il vissuto, l’essenza di ciò che ognuno di noi è. Ritrovarsi in questa storia è inevitabile, come inevitabile entrare in essa attraverso l’arte, magnifica arte, degli attori, del regista e di tutti coloro che hanno lavorato alacremente per realizzare un prezioso cameo di grande teatro.
UN AUTUNNO DI FUOCO
di Eric Coble
con Milena Vukotic e Maximilian Nisi
regia di Marcello Cotugno
traduzione di Marco Casazza
produzione La Contrada – Teatro Stabile di Trieste
Dal 16 al 25 novembre al:
TEATRO GHIONE
Orario spettacoli ore 21,00
Domenica ore 17,00
biglietti a partire da 23 euro
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