La vicenda del fallito attentato al pullman scolastico che trasportava cinquanta ragazzini in palestra a Crema a opera di un lavoratore senegalese naturalizzato italiano, al di là dell’evento in sé, ha riportato al centro del dibattito la questione della sicurezza e quella mai sopita delle migrazioni, dei buoni e dei cattivi, degli italiani e degli africani, dei cristiani, dei musulmani e della cittadinanza sì, cittadinanza no. Scatenando il solito purpurì di banalità, di frasi fatte, di chiacchiere da bar con l’aggiunta, poiché c’erano di mezzo degli adolescenti, di quelle infantil/televisive su fiabe e miracoli. Roba da “Pomeriggio cinque” con interviste irrispettose e pruderie da voyeur .
E’ comparsa anche la parola “eroi”, come sempre in questi casi abusata e buttata lì insieme alle tante che a forza di pronunciarle perdono il loro significato, la loro origine, il valore. Eroi i carabinieri ed eroi i ragazzini, anche se con qualche distinguo essendo “stranieri”. E nonostante i primi abbiano fatto semplicemente (bene) il lavoro per il quale sono pagati e i secondi (bravi e svegli) agito pensando principalmente al modo migliore per portare a casa la pelle.
Insomma la normalità, niente di eccezionale, la cosa giusta da fare anche in un paese così immaturo e volubile come il nostro. E invece, nel diluvio della comunicazione di superfice fomentata dal governo, sono arrivate a valanga espressioni e frasi che nonostante siano piccoli tesori da proteggere e custodire, sono state buttate nella mischia del sensazionalismo…
Sì, certo, lo sappiamo che nell’era dei social opporsi è una battaglia persa ma appunto, “eroicamente” essa andrebbe combattuta perché ne va della nostra cultura, della nostra intelligenza, del nostro essere quello che siamo, di quello che abbiamo elaborato e immesso per millenni nel mondo civilizzato con la logica, il ragionamento, la filosofia, la scienza. Abbiamo il dovere di resistere alle banalità e di riportare la parola nel suo alveo naturale dandogli la dovuta importanza e collocazione.
Ad esempio, non si può parlare sempre di “angeli” o di volontà di Dio ogni qualvolta muore un bambino per una malattia spiegabile razionalmente, perché così si affossa il progresso rincorso per secoli dai tempi dell’illuminismo che è stato il faro della nostra civiltà. Anche se dolorosa, quella morte va accettata come conferma della fragilità e della provvisorietà della presenza umana sulla terra, ma non va risparmiato nessuno sforzo da parte della comunità scientifica per impedirla. In ultima analisi dovrebbe essere gestita senza orpelli infantili o superstiziosi medioevali, palloncini bianchi e improbabili aureole.
Gli angeli lasciamoli nei cieli, alla fede, così come gli eroi dovremmo lasciarli alla storia, al limite alla letteratura e non alla quotidianità. C’è da inorridire ogni volta che conosciuti e stimati giornalisti della carta stampata, ma più spesso della tv, per compiacere la massa incolta e qualunquista che frequenta i moderni strumenti di comunicazione, ma anche le stanze dei ministeri, straparlano dell’eroe poliziotto che ha arrestato un ladro, del netturbino eroe che ha pulito bene una strada, del cane eroe che ha messo in fuga il ladro, del calciatore eroe che ha segnato un gol.
L’eroismo è un’altra cosa. Nemmeno più seria o più importante; è solo diversa, un titolo eccezionale riservato a coloro che sono capaci d’imprimere svolte nell’esistenza dei popoli e delle nazioni sacrificando più o meno scientemente la propria vita . E’ una virtù, che deve essere rara, altrimenti non è. Giuseppe Garibaldi è stato un eroe perché ha lottato consapevolmente per un obiettivo alto, rischiando per gli altri. Era unico come Salvo D’Acquisto, forse come la Piccola Vedetta Lombarda, Enrico Toti e tanti altri, ma non parlatemi di CR7, della Nazionale di calcio, dei divi del cinema, degli atleti che hanno vinto una medaglia, i quali non si capisce perché debbano essere appellati in quel modo e insigniti, a ogni spedizione sportiva, dalle massime autorità dello Stato del titolo di cavalieri, commendatori o ufficiali della Repubblica .
Il compianto Pietro Mennea non si è mai sentito un eroe nonostante avesse cambiato la storia dell’atletica mondiale e ci soffriva quando ve lo paragonavano. Sì, in questo paese bisognerebbe ridare senso e valore alle parole, giacché se poliziotti o carabinieri fanno bene il loro lavoro sono bravi servitori dello stato, se un impiegato svolge la sua mansione con diligenza è un ottimo impiegato, così come se un atleta conquista un titolo è semplicemente una persona che si è impegnata particolarmente nel suo campo ed è riuscita a raggiungere determinati traguardi, spesso ricompensati anche adeguatamente.
Gli eroi sono pochi e tali devono restare per poterli continuare a onorare senza inflazionarli “popolarizzandoli”, massificandoli, banalizzando le loro gesta, mischiando l’alto e il basso, i valori e gli interessi, il serio con il faceto, il sacrificio con il gioco. Eroe era Alessandro Orsetti, italiano di Firenze, che come i giovani partigiani italiani di quasi un secolo fa che andarono a combattere il fascismo in Spagna, è caduto pochi giorni orsono in un’ imboscata dei tagliagole dello Stato islamico; morto per difendere le libertà democratiche e non riconosciuto come tale da chi si riempie giornalmente la bocca con l’elegia delle libertà e della lotta al terrorismo. Eroine sono state le giovani guerriere curde morte ammazzate e violentate esattamente un anno fa, nel marzo del 2018 a Efrin in Siria mentre combattevano anche per noi occidentali, per i nostri interessi e diritti contro l’Isis.
Eroi non sempre apprezzati e qualche volta pure denigrati. Essi sono pochi, sono rari e non sgomitano per diventarlo, poiché di solito questo succede da defunti. Pertanto, se potete, siate liberi intellettualmente e non date più retta a quella scritta che campeggia da tempo immemore sul bel palazzo della Civiltà del lavoro all’Eur a Roma, che pur nella sua “generosità collettivista”, deve averci però confuso, poiché non siamo affatto: “ un popolo di santi, poeti, artisti, “eroi”, navigatori, trasmigratori, scienziati ecc. ecc. “.
Era una “fake news” già allora, forse estasi, di sicuro propaganda. Noi siamo un’altra cosa facciamocene una ragione, siamo la normalità, la massa che non è né bella né brutta; siamo coloro che spingono l’aratro tirando a campare che però, pur se con fatica, teniamo in piedi il mondo con il nostro lavoro e le nostre competenze e qualche volta, ma solo qualche volta per fortuna, abbiamo bisogno di eroi.
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