L’epidemia e il suo contrasto hanno determinato la più estesa ed intensa privazione della libertà dalla nascita della Repubblica facendo vivere per la prima volta ad un’intera generazione l’esperienza dell’assenza di libertà, del poter fare solo ciò che è espressamente consentito. Come una nuova religione si è rapidamente diffusa la convinzione che solo sacrificando la libertà, propria e altrui, il Mostro si sarebbe placato.
L’epidemia, tuttavia, se ha rappresentato un potente amplificatore della paura della libertà ed ha creato il necessario consenso per limitarla, non è stata la vera causa della sua limitazione.
La causa è in quella sorta di abdicazione all’educazione alla libertà, conseguenza dell’incapacità di determinarne dei limiti universalmente accettati, così che la libertà è divenuta per la generalità dei cittadini sinonimo di irresponsabilità.
Utilizzata come arma principale di contrasto dell’epidemia, la privazione delle libertà è stata riscoperta come forma di risoluzione estremamente semplificata del conflitto politico e sociale, superando il suo carattere di eccezionalità.
Il passaggio da bene non negoziabile a qualcosa che si può barattare tranquillamente in cambio di altri benefici è stato rapido e apparentemente indolore.
Restituire alla libertà la sua naturale intangibilità non sarà quindi agevole e a ben vedere sarà la vera sfida del post pandemia.
Sarà probabilmente necessario costruire una nuova cultura della libertà fondata sulla responsabilità individuale ed inventare una nuova didattica della libertà.
«La bella che è prigioniera ha un nome che fa paura», scriveva della libertà Giorgio Calabrese ne I carbonari.
Versi divenuti inaspettatamente attuali.
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