La crisi agostana di governo. L’8 agosto Matteo Salvini ha tenuto in una piazza di Pescara un discorso in cui ha chiesto “pieni poteri per fare quello che abbiamo promesso di fare fino in fondo senza rallentamenti e senza palle al piede”. Poche ore prima il capo politico della Lega, nonché ministro dell’Interno e vicepremier, aveva presentato una mozione di sfiducia nei confronti del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Si è aperta così una delle crisi di governo più anomale della storia repubblicana. Ma anche una delle più brevi.
Nonostante sia occorsa in piena estate, nel giro di tre settimane la soluzione è già stata individuata. Artefici ne sono stati il premier sfiduciato, l’avvocato e professore Giuseppe Conte, il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti segretario del Partito Democratico. Il tutto sotto la sapiente regia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Torniamo all’8 agosto. Quella stessa sera Conte ha accusato senza mezzi termini Salvini di aver aperto la crisi per capitalizzare il consenso elettorale raggiunto dalla Lega alle elezioni europee e gli ha intimato di giustificare in parlamento la sua decisione. E’ stato il primo discorso veramente politico di Giuseppe Conte. Con quel discorso il premier sfiduciato ha preso le distanze da Matteo Salvini cominciando a splendere di luce propria. Ma la vera resa dei conti ha avuto luogo nella seduta parlamentare del 20 agosto.
Raramente si sono sentite parole più dure nei confronti di una singola persona, peraltro facente parte della stessa coalizione di governo: “irresponsabilità, scarsa sensibilità istituzionale e grave carenza di cultura costituzionale” solo per citarne alcune.
Al termine della seduta Conte si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni nelle mani del Capo dello Stato. Sergio Mattarella non ha perso tempo ed ha subito iniziato le consultazioni. Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno dichiarato di voler andare subito a nuove elezioni. M5S e PD si sono detti disposti a far nascere una nuova coalizione di governo. Per circa una settimana ci sono stati incontri per trattare sui temi e sui nomi, in particolare quello a cui affidare il ruolo di Presidente del Consiglio.
Alla fine il PD ha accettato la volontà del M5S di avere nuovamente Giuseppe Conte a capo del governo. Il 29 agosto il Presidente della Repubblica ha conferito a Conte l’incarico di formare un nuovo governo e risolvere la crisi. Il professore ha accettato l’incarico con riserva. Fin qui i fatti nel momento in cui scriviamo. Ai quali aggiungiamo alcune considerazioni, commenti e punti di domanda.
Una prima considerazione riguarda il nascituro governo e il suo capo. Il governo Conte bis (o Conte 2, come presumibilmente verrà chiamato) nasce dalla volontà di correggere gli errori del Conte 1 e dare inizio ad una fase migliore, più stabile e costruttiva, della politica in Italia. Il cosiddetto governo del cambiamento nato con le elezioni di marzo 2018 era basato su un contratto dato dalla somma algebrica dei programmi dei due partiti. Programmi così diversi dall’essere persino in contrasto tra loro. Ciò ha causato innumerevoli scontri bloccando l’azione di governo.
A fare da paciere è stato Giuseppe Conte chiamato spesso a dare rassicurazioni sulla tenuta del governo e a superare la crisi. Ciò gli ha procurato non poche critiche dai partiti di opposizione, ma anche da osservatori politici e dalla stessa stampa, che gli hanno rimproverato di non poter adempiere compiutamente al mandato stabilito dall’art. 95 della Costituzione (quello di promotore e coordinatore dell’azione di governo) non essendo capo di alcun partito politico.
La crisi innescata da Salvini ha tuttavia finito col mettere in evidenza le qualità del premier che ha dimostrato, anche alla luce dell’esperienza maturata in questi mesi di governo, di possedere equilibro e senso di responsabilità. A ciò va aggiunto il consenso riscosso sulla scena internazionale e, non da ultimo, nella società civile. Vedremo presto se tutto ciò contribuirà a dare a Giuseppe Conte la piena legittimità politica che gli è mancata nel primo mandato.
Una seconda considerazione riguarda il M5S, partito di maggioranza relativa, i suoi elettori e la possibilità che grazie alla convivenza col PD abbia luogo un processo di assimilazione che produca la trasformazione del M5S da movimento populista anti-sistema, fondato sulla democrazia diretta, a partito progressista ispirato alla democrazia rappresentativa. Parte degli elettori del M5S sono ex-elettori PD e la trasformazione suddetta potrà accadere solo se la convivenza tra M5S e PD produrrà buoni risultati. Ma non mancano aspetti problematici.
Uno di essi riguarda proprio i meccanismi della democrazia diretta e l’uso della cosiddetta piattaforma Rousseau (con tutti i limiti, i dubbi e le contraddizioni sulla sua legittimità) da parte degli iscritti. Il numero di questi non è noto ma non dovrebbe superare le 100.000 unità. Troppo piccolo per condizionare le scelte di un movimento che il 3 marzo 2018 ha ottenuto il voto di oltre 10 milioni di italiani.
Vedremo presto se e come la piattaforma Rousseau influenzerà le trattative in corso tra Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti (le questioni rispetto alle quali gli iscritti alla piattaforma saranno chiamati a rispondere non sono ancora note, ma potrebbero includere la lista dei ministri, il ruolo di Di Maio e gli stessi contenuti del programma di governo). L’auspicio è che i due leader della coalizione giallorossa stabiliscano un buon livello di comunicazione che liberi l’Italia dalla spirale di diffidenza e litigiosità che ha caratterizzato i lavori della passata coalizione gialloverde.
Una terza considerazione riguarda il PD e le sue vicissitudini interne a partire dalla sconfitta alle scorse elezioni politiche. Carlo Calenda dopo l’accordo raggiunto da Zingaretti e Di Maio ha lasciato il partito. Nei prossimi mesi vedremo se ci saranno ulteriori scissioni, in particolare tra i senatori e i deputati facenti capo a Renzi e la direzione del partito. Va detto che un tentativo di accordo tra M5S e PD fu già fatto nella primavera 2018. Purtroppo tramontò prima che se ne potesse verificare la fattibilità.
Il responsabile del fallimento fu proprio Matteo Renzi che in una intervista televisiva (29 aprile 2018 – Che tempo che fa) escluse ogni possibilità di accordo con i pentastellati. Così facendo Renzi scavalcò Maurizio Martina, segretario reggente del PD a seguito delle sue dimissioni. Martina aveva invece dato segnali di apertura alla trattativa con i pentastellati. L’intervista di Renzi scatenò molte critiche sia all’esterno che all’interno del partito.
Sedici mesi dopo quell’intervista Matteo Renzi continua ad essere azionista di maggioranza del PD e il 20 agosto è stato lui e non Zingaretti ad intervenire in Senato dopo il discorso di Conte che ha aperto la crisi. Stavolta ha detto chiaramente sì a un accordo con i 5 Stelle giustificandolo con la necessità di prevenire un aumento dell’IVA al 25% e il rischio dell’esercizio provvisorio del governo. Ma lo scopo di Renzi è soprattutto quello di evitare elezioni anticipate e l’eventualità che Salvini le vinca.
Un governo sovranista guidato dalla Lega e da Fratelli d’Italia (vi immaginate Salvini premier e la Meloni ministro dell’interno?) aprirebbe scenari preoccupanti e rischi dalle conseguenze nefaste per il nostro paese. Se Renzi avesse colto questo pericolo già un anno e mezzo fa probabilmente non avrebbe intralciato la formazione di un governo giallorosso e avrebbe risparmiato al paese il clima di odio e intolleranza seminati a piene mani dal ministro Salvini.
La quarta ed ultima considerazione riguarda proprio Salvini. Nel mese di agosto ha sbagliato tutto. Sapendo che andrà all’opposizione già accusa il M5S e il PD di volersi spartire le poltrone. Detto da uno che voleva “pieni poteri” l’accusa risulta poco credibile e suscita sorrisi tranquillizzanti. L’Italia, scampata dal pericolo di un ritorno al passato, se ne rallegra.
Fonte foto: Open online
[…] La crisi di governo aperta da Matteo Salvini si è risolta in un boomerang per il suo stesso fautore […]