«La legge del cuoco è la ricetta di cui è esecutore». Così scriveva Gualtiero Marchesi, il più prestigioso Chef italiano contemporaneo, nel suo «Decalogo».
Parole forti, quelle di Marchesi, e di grande impatto anche emotivo, ma che generano un interrogativo di fondo al quale Marchesi non ha risposto: se la ricetta è la legge del cuoco, chi è il legislatore?
Cos’è una ricetta
Per comprendere cosa sia effettivamente una ricetta è possibile innanzitutto farsi aiutare dalla lingua. Del resto vi è tutto un filone, che ha tra i suoi esponenti Massimo Montanari, che paragona la cucina al linguaggio ed in cui la ricetta rappresenterebbe la grammatica e quindi il complesso delle regole che consentono di trasformare le parole (che in cucina sarebbero gl’ingredienti) in frasi di senso compiuto e corretto.
Il termine ricetta, ed i suoi omologhi nelle principali lingue europee (recipe in inglese, recette in francese, receta in spagnolo e rezept in tedesco) derivano dal latino medievale recepta, femmile di receptus, participio passato di recipĕre, a sua volta composto da re- e capĕre «prendere».
La stessa radice di altre parole di uso comune e significato analogo in italiano: recepire, ricevere, ricevuta.
Nel corso dei secoli la parola recepta è stata isolata dal suo contesto originario che la vedeva associata a «formula» nella parola composta «formula recepta».
Un termine che prima ancora che alla cucina rinvia alla farmacia ed infatti la prima definizione di ricetta che dà il dizionario Treccani è di «istruzione scritta dal medico per la preparazione galenica di una medicina e per la somministrazione di essa (detta, un tempo, formula magistrale)».
Se non è la vera e propria «legge» di Gualtiero Marchesi, che probabilmente si riferiva ad un modello di cucina professionale e rigidamente gerarchizzato, la ricetta è allora l’insieme delle istruzioni per raggiungere il risultato finale della preparazione di una pietanza.
Del resto quando cerchiamo una ricetta è proprio dal risultato voluto che partiamo: se voglio preparare una torta con le mele cerco in un ricettario, o adesso più facilmente nella rete, la ricetta della torta con le mele.
E mi scontro con un enorme problema: ogni ricettario ha la «sua» ricetta della torta con le mele e se mi avventuro nella rete di ricette della torta con le mele ne trovo migliaia.
Quale sarà la ricetta «giusta»?
Non abbattetevi perché quello in cui vi siete imbattuti è «il problema delle ricette» e se volete farvene una ragione leggete in gustoso saggio di Julian Barnes intitolato «Il Pedante in cucina» che fornisce, con spirito pedante appunto, anche tutta una serie di spunti su come districarsi nella scelta dei ricettari.
«Il problema delle ricette»
Il problema delle ricette, cioè la loro moltiplicazione senza che si possa individuare una ricetta definitiva di qualsiasi preparazione, nasce dalla loro stessa origine perché, come ha acutamente osservato Dario De Marco («Cos’è una ricetta: storia e filosofia di un genere»), la ricetta non nasce come prescrizione, ma come promemoria oltretutto volutamente vago e impreciso, scritto, o più spesso trascritto, dopo un periodo più o meno lungo di trasmissione orale e di pratica.
Lo stesso termine «ricetta» che usiamo ora è relativamente recente perché se il suo primo uso in volgare è attestato alla metà del 1400 dalla novella di Gentile Sermini «Ser Meuccio Ghiottone», esso si diffuse solo alla metà dell’800 di pari passo con l’editoria culinaria.
Prima di allora la diffusione delle ricette scritte era ristretta alla comunità professionale dei cuochi a servizio delle Corti e dei nobili e che che facevano riferimento alle opere di quegli intellettuali prestati alla cucina che ora consideriamo i Padri delle cucina occidentale: Maestro Martino, Plàtina, Scappi, Messisbugo.
Personaggi spesso ai vertici di grandi strutture di cucina che avevano necessità delle ricette per affidare i compiti, da quelli più elementari a quelli più complessi, all’interno di organizzazioni che se non avevano la struttura gerarchica della brigata di cucina, che verrà creata da Auguste Escoffier solo alla metà dell’800, dovevano essere comunque abbastanza complesse.
I ricettari più antichi assomigliano molto alla letteratura scientifica: le nozioni di base si danno per scontate e s’illustrano solo il risultato ed il procedimento: le dosi, che in moltissimi casi sono completamente assenti o approssimative, all’atto pratico verranno determinate in base alla sensibilità dell’esecutore e alla disponibilità degli ingredienti.
Le raccolte di ricette dell’epoca più antica, oltre a funzioni eminentemente pratiche, servivano a lasciare traccia dell’opera dei loro redattori, tramandandola ai posteri, e ad accrescere il loro prestigio.
Più raramente, ed il caso dell’Opera di Bartolomeo Scappi (1570), esse si presentavano come veri e propri testi didattici corredati di dettagli ed illustrazioni destinati probabilmente alla formazione degli apprendisti.
Nella cultura gastronomica popolare, invece, i ricettari erano completamente assenti e lo saranno praticamente sino ai nostri giorni.
Come ha confermato anche Monica Tonon nella sua Tesi di Laurea in Scienze del linguaggio dal titolo «La ricetta: un genere in evoluzione? Analisi comparata di testi», le modalità di preparazione dei piatti tradizionali si sono tramandate oralmente da una generazione all’altra soprattutto, se non esclusivamente, in linea femminile e quando, a partire dagli anni del boom e parallelamente all’alfabetizzazione di massa, si è giunti ad una loro trascrizione, lo si è fatto in una lingua speculare al parlato e dalla forte influenza dialettale legata all’idioma materno di chi le ha trascritte.
In questo contesto così fluido e variegato i redattori dei primi ricettari destinati ad un pubblico, inizialmente di stampo prettamente borghese, più ampio rispetto alle comunità professionali dei cuochi, hanno avuto buon gioco nell’appropriarsi delle ricette personalizzandole al loro gusto e con la loro impronta personale e così da un numero relativamente limitato di ricette si è giunti alle migliaia attuali. Un fenomeno che si è moltiplicato quando la cucina borghese (soprattutto con Ada Boni, in misura più limitata con Artusi) si è appropriata di quella popolare.
Giovanni Vialardi e la precisione delle ricette
Un breve accenno lo merita Giovanni Vialardi, anche se non è tra gli autori più noti di ricettari malgrado il discreto successo del suo ponderoso Trattato pubblicato nel 1854.
A questo cuoco piemontese, che entrò giovanissimo nella cucina della Corte sabauda e con il suo lavoro conquistò i favori del principe Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, dobbiamo la prima comparsa nei ricettari del sistema metrico-decimale e dell’uso delle illustrazioni dei piatti così da far comprendere con immediatezza al loro esecutore quale fosse il risultato atteso.
Passaggi fondamentali per consentire la trasformazione delle ricette da appunti per addetti ai lavori in vere e proprie prescrizioni fruibili anche da parte di un pubblico che si andava ampliando dai professionisti ai dilettanti.
I ricettari moderni
Anche se non erano mancate in passato ristampe dei testi degli autori più prestigiosi è con Vincenzo Corrado, letterato, filosofo e cuoco di grande successo nella ricca Napoli del ‘700, che si è avuto, con il suo «Il cuoco galante», il primo best seller culinario che conobbe, fino al 1857, ben 6 ristampe, fu stampato in 7500 copie, tradotto e diffuso anche al di fuori del Regno di Napoli.
Da allora in poi fu tutto un proliferare di testi di cucina teorico-pratici che spesso vantavano, per generare la curiosità dei lettori, ascendenze francesi o turchesche.
Che lo scopo di questi testi fosse d’intercettare un pubblico amatoriale lo rivela il paragrafo de la «Cucina teorico-pratica» (Napoli, 1839) di Ippolito Cavalcanti intitolato «Metodo pratico come istantaneamente eseguirsi un pranzo, o cena, da un dilettante novello di Gastronomia».
Dal famoso Talismano della felicità di Ada Boni, che già aveva precorso i tempi con la rivista Preziosa, vi è stato un tale moltiplicarsi di ricette da rendere impossibile anche tenerne il passo.
Dai rotocalchi alle riviste specializzate, dai ricettari degli Chef e dei gastronomi portati alla notorietà dalla televisione sino a siti e blog passando per personaggi dello spettacolo come Ugo Tognazzi e per la cucina televisiva interpretata, quasi sempre al femminile, in ambito domestico (vale citare per tutte Benetta Rossi ed il suo «fatto in casa da Benedetta») o come forma di spettacolarizzazione (Benedetta Parodi e Antonella Clerici) gli appassionati di cucina sono letteralmente bombardati di ricette che apparentemente rendono facile il difficile e alla portata di tutti i piatti più complessi.
Come si risolve allora il problema delle ricette? Per quanto possa apparire banale la risposta è: provandole.
Il che presuppone un po’ di tempo da dedicare alla cucina, qualche cavia bendisposta ed il rischio di fallire.
Solo provando, come già insegnava Artusi più di un secolo fa, si può creare un proprio ricettario personale che magari non sarà più scritto sulle agende di casa delle nostre mamme e delle nostre nonne, ma sarà digitalizzato.
Di alcune ricette, quelle su cui ci sentiremo più sicuri, alla lunga faremo addirittura a meno e doseremo gl’ingredienti a memoria o «a sentimento», altre le correggeremo (perché non è scontato che una ricetta sia giusta solo per il fatto di essere stata pubblicata), di altre ci dimenticheremo.
Mai provare una nuova ricetta in occasione di una cena o di un pranzo importanti: «il pericolo è il mio mestiere, farmi male no!» dicono gli stuntman e lo stesso vale in cucina.
Le ricette in prosa ed in versi
Se i ricettari si ascrivono alla manualistica, e come tali sono reperibili nelle biblioteche e nelle librerie al punto che una delle parole più ricorrenti nei loro testi è «pratica», non sono mancati nel corso dei secoli testi di taglio prettamente letterario o addirittura poetico.
Nulla di sorprendente visto che i primi ricettari avevano ambizioni, oltre che culinarie, di medica e d’igiene, e quindi i loro redattori furono in massima parte gl’intellettuali della loro epoca.
Il padre dei ricettari letterari è stato sicuramente Pellegrino Artusi, il cui libro uscì dalle cucine per entrare nelle biblioteche familiari accanto a Dante Alighieri e ad Alessandro Manzoni e di cui un suo entusiasta lettore ebbe a dire: «Il conte Kayserling [cui il libro era stato donato Ndr] mi assicura che solo la Divina commedia è paragonabile al suo libro».
Contemporaneo di Artusi, anche Giovanni Pascoli si dilettò a riportare una ricetta scritta in versi: «Amico, ho letto il tuo risotto in …ai!/ È buono assai, soltanto un po’ futuro,/con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”!/ Questo, del mio paese, è più sicuro/ perché presente. Ella ha tritato un poco/di cipolline in un tegame puro./V’ha messo il burro del color di croco/e zafferano (è di Milano!): a lungo/quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco./Tu mi dirai: «Burro e cipolle?». Aggiungo/che v’era ancora qualche fegatino/ di pollo, qualche buzzo, qualche fungo./Che buon odor veniva dal camino!/Io già sentiva un poco di ristoro,/dopo il mio greco, dopo il mio latino!/Poi v’ha spremuto qualche pomodoro;/ha lasciato covare chiotto chiotto/in fin c’ha preso un chiaro color d’oro./ Soltanto allora ella v’ha dentro cotto/Il riso crudo, come dici tu./Già suona mezzogiorno…ecco il risotto/romagnolesco che mi fa Mariù».
All’opposto, anche stilistico, di Pascoli sta invece l’opera di Aldo Fabrizi, quella trilogia in versi in dialetto romanesco che pubblicò nei primi anni ’70, ma anche altri letterati come Gadda e Palazzeschi si dilettarono a fornire ricette in bello stile.
L’importanza della ricetta
Si può tranquillamente preparare un pasto senza la ricetta. La prova l’ha indirettamente fornita Lina Wertmüller in «Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto» quando nell’isola deserta del loro naufragio ha costretto la spocchiosa Raffaella Pavone Lanzetti (Mariangela Melato), che in vita sua non aveva mai tenuto una padella in mano, a preparare un pranzo per il marinaio Gennarino Carunchio (Giancarlo Giannini).
Piatti improvvisati, svuotafrigo, rabberciati con la sola finalità di placare la fame: i «du spaghi» de «La terra dei cachi» di Elio e le storie tese o gli «Spaghetti ar primo sole» di Aldo Fabrizi («Doppo ‘na festa caciarona e sciarba,/ Fatta de zompi, battimani e fischi,/ Sostanno a le fontane e a l’obbelischi,/Un po’ allegrotti ricasamo all’arba./ Dico: “Però ‘sti cotijò che barba…/ Quant’era mejo qui cor magnadischi../ A proposito… Forse… È stato er vischi…/ Volemo fa ‘na cosa che ci aggarba?”/ “Sarebbe?” “Du’ avvorgibbili… A la lesta!”/ “La pasta a ‘st’ora? Pe’ l’amore de Dio!/ L’ho sempre detto che sei scemo in testa!”/ “Vabbè sò scemo… E tu… Si quanno è fatta…/Nun la gradisci…”; “Eh, no tesoro mio;/Si tu sei scemo io mica sò matta!”»).
La ricetta, tuttavia, è uno strumento fondamentale in cucina perché permette di riprodurre lo stesso piatto, ovviamente riuscito, infinite volte senza timore di sbagliare.
Il paradosso della ricetta è che essa è più importante nella cucina professionale, in cui si presuppone una maggiore padronanza delle tecniche, rispetto a quella amatoriale.
È nella cucina professionale che essa si trasforma in legge (imposta senza appello dallo Chef) perché non è possibile che ogni membro della brigata lavori a testa e gusto suo, frustrando l’aspettativa dei commensali che vogliono mangiare quel piatto di cui hanno sentito tanto parlare o che hanno gustato la volta precedente.
La carbonara con la panna
La carbonara con la panna, la pizza con l’ananas, gli spaghetti meaballs (con le polpette), la pasta con il Ketchup, il cappuccino a pranzo sono tutte bestemmie per un italiano eppure non è assolutamente detto che siano schifezze: semplicemente sono inappropriati.
Ogni cucina, citando Montanari, ha una sua grammatica e per noi italiani la carbonara con la panna suona esattamente come «se io avrei».
La cucina è, fondamentalmente, aspettativa: s’inizia a mangiare già dalla lettura del menù, dalla vista delle immagini e guai a tradire quest’aspettativa, ad imporre il gusto, a far passare da stupidi i propri commensali.
Cucina etnica e whitewashing
Se noi italiani siamo proverbialmente rigidi con i piatti della nostra tradizione diventiamo assai più disinvolti quando dobbiamo preparare pietanze di altre culture culinarie ed allora spesso, anche se non sempre, non esitiamo a sostituire ingredienti e dosaggi per adattarli al nostro gusto e lo stesso sovente accade quando dobbiamo riprodurre un piatto di un’altra epoca (dall’Antica Roma al Medioevo) in cui alcuni ingredienti (come il laser, il garum ed il ligustro dei Romani o l’agresto medievale) sono scomparsi o diventati introvabili.
Se violentare un piatto della cucina antica ha conseguenze relativamente limitate (e al massimo ci verranno a trovare in sogno Apicio o Maestro Martino a tirarci i piedi) stravolgere una preparazione di altre culture a noi vicine può avere effetti a lungo termine molti più gravi: Priya Krishna e Yewande Komolafe, rispettivamente indiana e nigeriana, citate da De Marco, hanno parlato di «whitewashing», intraducibile, ma intuitivo.
Quello stravolgimento di piatti di altre culture che hanno millenni di tradizioni culinarie che rischia d’imporre ad ogni costo il gusto occidentale sterilizzando l’originalità di quelle preparazioni, colonizzando le altre culture culinarie sino a determinarne l’estinzione.
Cosa mangiavano i nativi americani? Non hanno scritto ricette e probabilmente non lo sapremo mai.
Se proprio vogliamo avventurarci al di fuori dei confini nazionali meglio rivolgersi a chi quelle tradizioni, quegli ingredienti e quelle preparazioni li padroneggia e penso (spero non me ne vogliano per la citazione) a due grandissime Chef: Francesca Filippone per la cucina orientale e Sharon Landersz per la cucina ayurvedica.
A conti fatti la legge del cuoco non è la ricetta, mutevole nel tempo come è mutato il gusto dai tempi delle Yale Culinary Tablets, i tre reperti paleobabilonesi considerati il primo ricettario del Mondo.
La legge del cuoco è il rispetto.
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