Nel linguaggio comune la parola rischio è sinonimo di pericolo. Si è in una situazione di rischio quando sussiste incertezza sugli esiti di un evento e quando questi possono comportare una perdita o un effetto nocivo e indesiderato. Se consultiamo un buon vocabolario della lingua italiana, abbiamo modo di osservare che esistono molteplici definizioni di “incertezza” afferenti a campi molto diversi tra loro: economia, fisica, ingegneria, medicina, politica, filosofia e quant’altro. Il che altro non significa che questo: la nostra vita è permeata di incertezza.
Aldilà delle varie definizioni che è possibile trovare, a ben pensarci l’incertezza altro non è che la misura del nostro grado di ignoranza. Quanto più di un certo fenomeno ignoriamo i meccanismi specifici e le cause che lo determinano, tanto più non siamo in grado di prevederne il comportamento. L’incertezza diventa imponderabilità quando il grado di ignoranza è assoluto. Grazie alla scienza disponiamo di conoscenze e strumenti con cui possiamo oggi realizzare cose che erano impensabili soltanto un secolo fa. Esistono tuttavia molte altre cose che ancora non riusciamo a fare. Tra queste, prevedere esattamente il momento, il luogo e l’intensità di un terremoto.
L’11 marzo in tutto il mondo è stato ricordato l’incidente di Fukushima. L’11 marzo di cinque anni fa un terremoto di magnitudo nove della scala Richter provocò uno tsunami che sconvolse Giappone. In una manciata di secondi il terremoto spostò l’intero arcipelago giapponese avvicinandolo di due metri al continente asiatico. La centrale nucleare di Fukushima fu colpita violentemente. Era situata a pochi metri dall’acqua dell’Oceano Pacifico, un nome che in quell’occasione si rivelò drammaticamente inappropriato.
Nei giorni successivi ci furono esplosioni nei quattro reattori della centrale. L’ambiente circostante fu investito da livelli di radioattività sempre più alti. Progressivamente il territorio fu evacuato fino a un raggio di 30 km dalla centrale. Decine di migliaia di persone dovettero lasciare in fretta le proprie abitazioni. Gran parte di loro non vi hanno fatto più ritorno. Temendo un altro tsunami e un secondo disastro nucleare, il governo giapponese decise subito di chiudere la centrale di Hamaoka situata sulla costa a circa 200 km a sud-ovest di Tokyo. Decisione saggia che poteva e doveva essere presa anche per Fukushima.
La catastrofe lasciò tutti sgomenti, ma anche increduli. Per molti fu difficile comprendere come mai un popolo intelligente come quello giapponese avesse potuto costruire centrali nucleari proprio sulla costa davanti ad una delle placche tettoniche più a rischio di terremoti del pianeta. È possibile che nessuno tra politici, amministratori, ingegneri e tecnici abbia ipotizzato un nesso di tipo causa-effetto tra terremoto, tsunami e catastrofe nucleare? Peraltro la parola tsunami è stata coniata proprio in Giappone e vuol dire onda (nami) del porto (tsu). Essa significa semplicemente questo: un’onda anomala di grande altezza produce danni maggiori in un porto (e nella sua città) piuttosto che su una spiaggia libera.
Nel marzo 2011 nel mondo erano in esercizio 442 centrali nucleari. Gran parte di esse in Europa. Nella sola Germania ce n’erano diciassette. Con una decisione che fece scalpore, Angela Merkel e il suo governo decisero di smantellarle progressivamente. Lo smantellamento completo è previsto per il 2022 e attualmente ancora sette centrali sono in esercizio. La Germania è stata l’unica grande nazione a prendere una decisione così drastica. In molti altre parti del mondo, Europa compresa, si è continuato e si continua a costruire centrali nucleari. Persino in Giappone sono tornate in esercizio alcune di quelle disattivate dopo Fukushima. Attualmente il numero complessivo di centrali attive nel mondo è esattamente lo stesso di cinque anni fa, mentre 66 sono quelle in costruzione (fonte IAEA -PRIS International Atomic Energy Agency – Power Reactor Information System).
Le nuove centrali avranno standard di sicurezza avanzati, certamente superiori a quelle delle centrali costruite in passato. Certamente superiori agli standard di sicurezza di Chernobyl e di Fukushima. Ma esiste una centrale totalmente sicura? La domanda, a cinque anni dal disastro in Giappone e a 30 anni da quello in Ucraina (allora appartenente all’Unione Sovietica, ndr) è inquietante. Lo è in considerazione della gravità delle conseguenze di un eventuale incidente. Ma lo è anche perché nessuno è in grado di dare una risposta precisa e veritiera.
Nel 2003 la società tedesca Gesellschaft für Anlagen- und Reaktorsicherheit (GRS – Società per la sicurezza dei reattori atomici, ndr) pubblicò uno studio sulla sicurezza delle centrali nucleari in Germania. Nello studio c’era un paragrafo dal titolo apparentemente rassicurante: “Probabilità come indice di sicurezza”. In esso venivano citati i metodi usati per calcolare la probabilità che in uno dei reattori allora in funzione in Germania accadesse un incidente e di questa ne veniva fornito il valore: 4 x 10 elevato alla -6, ovvero 4 per milione, cifra che corrisponde ad un incidente ogni 250.000 anni di funzionamento. Questo risultato fu contestato da due docenti di statistica delle università di Bielefeld e di Monaco, i professori Kauermann e Küchenhoff rispettivamente, in un articolo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung che suscitò molto scalpore. Mettendo in relazione la sicurezza delle centrali nucleari a quella degli aeroplani di linea e facendo alcune assunzioni, i due docenti conclusero che nei successivi dieci anni la probabilità di avere un incidente in uno degli allora diciassette impianti in funzione in Germania ammontava al 9%. Nove per cento. Tra nove per cento e quattro per milione c’è una bella differenza, non c’è che dire.
Quando si studiano sistemi complessi si fa uso di modelli matematici. Un modello matematico è una rappresentazione semplificata della realtà. In esso vengono considerate le variabili in gioco e le relazioni che esistono tra di esse. Più il numero di variabili cresce, più aumentano le relazioni che le legano e più il modello si avvicina alla realtà diventando preciso. Tuttavia cresce anche la complessità e con essa la possibilità di compiere errori, se le valutazioni preliminari sono sbagliate o se le assunzioni fatte sono arbitrarie. La differenza tra i risultati dei due professori di statistica e quelli della società GRS rispecchia proprio questo aspetto. Essa è così grande da suscitare non solo preoccupazione, ma anche diffidenza sulla validità delle assunzioni e degli stessi modelli impiegati.
Nel caso di centrali nucleari bisogna abbandonare la velleità che modelli matematici e calcoli numerici possano fornire risultati infallibili. Bisogna piuttosto affidarsi a valutazioni più pratiche, basate sulla ragionevolezza e sul buon senso. E al buon senso consentire di contemplare cose e fatti che i modelli matematici non possono quantificare e che pertanto tendono ad escludere e ad ignorare, ad esempio che possa accadere un evento imponderabile.
Gli italiani e le italiane che nel giugno 2011 al referendum pro o contro il nucleare dissero no, espressero la loro preferenza sulla base del buon senso. Dicendo no hanno dato impulso alle energie rinnovabili, allo sviluppo di fonti di energia alternativa a quelle tradizionali basate sul carbone o sul petrolio. Dicendo no hanno detto sì a fonti di energia più pulita e compatibile con la vita. Peccato che vicino a noi la Francia abbia in esercizio oltre 50 centrali nucleari, un nono di quelle complessivamente esistenti sul pianeta.
L’incidente di Fukushima ha avuto a tutt’oggi un costo di circa 200 miliardi di dollari. Soldi spesi per la sola ricostruzione. Si tratta dei costi quantificabili, dei costi che sono stati quantificati. In essi non sono computate le vite perse, che sono state oltre 20.000, come non è computato il danno sull’ambiente, incluso quello marino, e il buco di vita nel territorio. Danni e costi continueranno ad esserci per un tempo al momento indefinibile, dato che non è stato possibile stoccare e preservare adeguatamente le barre di uranio arricchito che alimentavano la centrale. Oltre a ciò, va amaramente registrato che uno dei motivi di indeterminazione dei costi dell’incidente risiede nel comportamento colpevole e immorale che sia il governo sia la società Tepco, responsabile della gestione delle centrali, hanno avuto tentando di depistare, manipolare e occultare. Tutto il mondo è paese.
In ambito europeo l’incidente avrebbe dovuto aprire un dibattito, approfondito e serio, sulla necessità di avere una politica energetica condivisa e libera dal nucleare. Questa doveva essere la lezione di Fukushima. La risposta, tanto per cambiare, è stata diversa in ogni paese. Il dibattito c’è stato, all’inizio, sull’onda dell’emozione del primo momento. Poi via via la questione è stata dimenticata.
Le conseguenze di questa mancanza di visione e strategia comuni le misureremo in occasione del prossimo incidente.
di Pasquale Episcopo
foto: Wikipedia – IAEA-PRIS
[…] dell’opinione pubblica, che richiede a gran voce l’individuazione dei responsabili del disastro e la loro punizione in base alla legge, l’attuale governo in carica – prescindendo da ogni […]