La retrospettiva. Il cinema di Pablo Larrain: “Sono come un bambino con una bomba in mano”

Pablo-Larrain-Il regista cileno presenta “El Club”, la casa dei preti peccatori

La Festa del Cinema di Roma ha dedicato una delle tre retrospettive al regista cileno Pablo Larrain. Dopo aver visto tutta la sua filmografia (Fuga, Tony Manero, Post Mortem, No), venerdì è stata la volta del suo ultimo lavoro “El Club”, già vincitore al festival di Berlino e candidato all’Oscar. Prima della proiezione, Larrain ha incontrato il pubblico e ha risposto alle domande di Mario Sesti, mai in modo banale, raccontando che “El Club” è nato in tre settimane, mentre stava lavorando all’altra opera, “Neruda”. La maggior parte delle riprese sono state fatte nei pressi della sua casa sulla costa cilena, dove si ritira prima di ogni film insieme al direttore della fotografia, non solo per programmare il lavoro ma anche per leggere, studiare e guardare film, tra i quali non manca mai una pellicola di Pasolini.

Larrain nasce come fotografo, ma già a trent’anni firma il suo primo lungometraggio: “Fuga”. “Per me – spiega – la chiave nel cinema è il mistero. Se un personaggio lo conosci troppo, la storia diventa meno interessante. La maggior parte delle scene nascono sul set ed è al montaggio che si decide la storia. L’unica certezza è l’incertezza”. In “El Club”, infatti, gli attori non conoscevano la sceneggiatura, non avevano alcun supporto: il regista ha lasciato che si esprimessero nel loro presente, ignorando il passato e il futuro dei personaggi, come sospesi in un limbo alla ricerca di un’identità.

Una suora e quattro preti sconsacrati vivono insieme in una casa isolata, sulla costa cilena, la casa del buen ritiro che la chiesa riserva a chi ha commesso dei crimini. E’ una casa di penitenza, in cui però i cinque inquilini, mentre cantano e pregano, continuano a reiterarsi nel peccato: allevano un cane per scommettere su di lui, praticano l’avarizia e allontanano i bisognosi. Senza pentimento alcuno, vivono nel buio delle loro menti e delle loro coscienze. Larrain usa una fotografia esemplare per rendere ancora più cupa e misera l’immagine delle loro vite. A rompere l’insano equilibrio arriva padre Lazcano, prete pedofilo che si porta dentro il tormento per Sandokan, un ex bambino violato. Sfinito dalle accuse, l’aguzzino si spara davanti alla sua vittima, avviando così le indagini di un altro ministro di Dio, padre Garcia, gesuita e psicologo mandato per fare chiarezza sul suicidio e chiudere la casa.

Il film parla di pedofilia, di colpe, di ombre e contraddizioni. E dell’incapacità della Chiesa di “separare la luce dalle tenebre”. La Chiesa si limita a verificare le responsabilità, si accontenta della confessione e non punisce mai. Padre Garcia non chiuderà la casa dei peccatori, ma li lascerà vivere di fronte alle proprie colpe, imponendo la presenza di Sandokan nella casa. E se da un lato la chiesa vuole apparire “nuova”, affidando il caso al giovane e bel sacerdote che tenta un cambiamento, dall’altro resta ancora troppo riparata nella segretezza dei conclavi e nell’ipocrisia della remissione dei peccati senza pena. Il film di Larrain è duro, lucidamente crudele, privo di ogni furba estetica che renderebbe più piacevole la visione. Ma sono proprio quelle immagine sfocate, quei primi piani isolati, a rendere ancora più fastidiosi e irritanti quei cupi personaggi senza scrupoli. E quando si chiede al regista qual è il messaggio che vuole dare al pubblico, lui risponde: “Il mio è un cinema politico ‘irresponsabile’, non voglio trasmettere messaggi, mi sembrerebbe di insultare l’intelligenza degli spettatori, per me il cineasta è come un bambino con una bomba in mano che può esplodere o no. Il vero cinema politico, quello che dà un pugno nello stomaco, è sensoriale, lascia emozioni forti”.

di Patrizia Angona

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