La ricotta: antica, aristocratica e popolare

ricotta latticini

«Pizza, ricotta, Oreste, bum!». Una filastrocca, un gioco di strada delle bambine della Roma degli anni ’40 (si faceva a due con le mani incrociate andando prima avanti e poi indietro), una di quelle catene di parole senza senso (ma che importanza ha il senso delle parole quando stai giocando) che rimangono impresse nella memoria.

In quel gioco infantile c’è tutta la millenaria familiarità dei romani con la ricotta: il latticino (guai a chiamarlo formaggio) che tra pochi giorni a Pasqua, nel pieno della sua stagionalità che va da febbraio a giugno, si prenderà il palcoscenico nella ricchezza di tutte le preparazioni dolci e salate in cui entra in modo preponderante.

Un cibo antichissimo arrivato intatto sino ai giorni nostri

Secondo il mito la ricotta è stata preparata per la prima volta da Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, fondatore della città di Cagliari e apicoltore. Lo stesso Aristeo che Virgilio citerà nelle Georgiche raccontando il mito di Orfeo ed Euridice.

L’ascrizione al mito è da considerarsi un punto di arrivo perché la ricotta, alimento popolare, ma gradito da tutte le classi sociali, è con ogni probabilità molto più antica e trova origine in Mesopotamia come sottoprodotto del formaggio.

Si è infatti già accennato al fatto che è un latticino, ma essa comunque è legata alla lavorazione del formaggio poiché è preparata con il siero sgrondato dalle sue forme; siero a cui vengono eventualmente aggiunti una minima quantità di latte, rigorosamente crudo, più raramente panna di latte, un acidificante e una quantità, che varia da ricotta a ricotta, di sale. La temperatura a cui viene portato il siero, mediamente intorno agli 80° ma in talune ricotte si arriva ai 95°, fa affiorare progressivamente i fiocchi di ricotta i quali, raccolti con un mestolo forato, sono messi a scolare in appositi recipienti forati, detti fuscelle, inizialmente di vimini ed ora, ma con la stessa forma di migliaia di anni fa, di plastica o silicone.

Sgrondando della «scotta», il siero in eccesso che viene recuperato come alimento per animali (soprattutto maiali), la ricotta si compatta per il suo peso e con l’andare del tempo, sino alla scadenza indicata dal produttore, continua a sgrondare maturando.

Il nome ricotta, quindi, racchiude la sua lavorazione visto che il siero di latte, già frutto del riscaldamento necessario a produrre il formaggio, viene ri-cotto per sfruttarlo al massimo.

Questo procedimento, che si pratica ancora artigianalmente, è rimasto immutato anche se ovviamente le attrezzature, le condizioni igieniche, i materiali e le tecniche di conservazione sono cambiati profondamente a vantaggio della salubrità del prodotto.

Ricotta e ricotte

La relativa facilità del procedimento ed il suo stretto legame con la lavorazione del formaggio fanno sì che questo prodotto sia diffuso in tutta la Penisola e vari in ragione delle diverse tradizioni casearie.

In linea di massima possiamo distinguere le ricotte in fresche e lavorate e le une e le altre in ricotte di pecora, di capra, vaccine e di bufala.

La ricotta di pecora è quella più diffusa soprattutto nel centro e nel sud in cui più marcata è la vocazione pastorale, mentre nell’alimentazione contemporanea la ricotta vaccina, povera di grassi, è quella che si consuma maggiormente.

Le differenze, di gusto e di consistenza, tra le varie ricotte fresche anche nell’ambito della stessa tipologia di animali da latte si ascrivono a moltissimi fattori come la razza, il tipo di alimentazione, la presenza in misura più o meno marcata di sale.

Una delle ricotte più antiche e famose è la ricotta romana di pecora su cui ci intratterremo più avanti ma quasi ogni Regione produce ottime ricotte che hanno avuto almeno il riconoscimento di Pat (Prodotto agroalimentare tradizionale).

Elencarle tutte è praticamente impossibile: vale citare le più particolari che si aggiungono alle ricotte fresche tradizionali la cui lavorazione è pressoché identica in tutta Italia.

In Abruzzo produce la ricotta di «stazzo», jacce in dialetto: un ricovero temporaneo utilizzato durante il periodo dei pascoli d’alta quota. Preparata esclusivamente negli stazzi, e quindi con latte di animali (pecore e capre in maggioranza) che fanno solo pascolo, è un prodotto prettamente estivo dal gusto marcatamente erbaceo.

In Basilicata, Campania, Calabria, Molise e Puglia si producono varie tipologie, di diversa sapidità e consistenza, di cacioricotta, tecnicamente un formaggio che unisce le due tecniche del formaggio e della ricotta. Salata prima della stagionatura, diviene compatta al punto da poter essere grattugiata come condimento.

La Campania è la patria della ricotta di bufala fresca ed essiccata, che viene prodotta anche nel basso Lazio, e di una particolare ricotta, detta «laticauda» dalla razza ovina di origine berbera di cui si utilizza prima il latte crudo per il formaggio e poi il siero.

In Emilia-Romagna, comprensibilmente, vi è una ricotta vaccina, la puina, ottenuta dalla lavorazione del parmigiano reggiano. Puina è anche la ricotta del Veneto in cui si prepara anche la ricotta da sacchetto, molto compatta, in cui la fuscella è sostituita da un sacchetto di canapa.

Tipico del Piemonte è invece il «seirass» (da siero) che contiene una generosa aggiunta di panna e che può essere fresco o stagionato con erbe aromatiche.

In Puglia si produce invece, come in alcune zone della Basilicata, la ricotta forte, una ricotta fermentata dal sapore molto deciso e piccante.

La Sardegna, oltre a pregiate ricotte salate ovine e caprine, produce la «ricotta mustia»: una particolare ricotta salata affumicata, mentre in Sicilia si produce anche una particolare «ricotta infornata» da non confondere tuttavia con la ricotta dolce infornata, che è una vera e propria preparazione dolciaria in cui la ricotta fresca, ovina o vaccina, viene scomposta, aromatizzata, addolcita, compressa in uno stampo e infornata.

La ricotta romana

Vanto dell’agro romano, la ricotta romana è probabilmente quella che, tra tutte le altre ottime ricotte che si producono nel Belpaese, ha avuto i riscontri documentali e pittorici più antichi e rappresenta uno degli elementi più caratterizzanti della tradizione culinaria romanesca al punto che Ada Boni scrisse che i romani hanno per la ricotta una vera e propria ossessione.

Prima dell’avvento dei nuovi canali commerciali la ricotta, ancora calda, veniva portata in città dai pastori la mattina presto e venduta porta a porta prima di andare nei mercati: giusto in tempo per metterne un cucchiaino nel caffè o nel caffellatte: a Roma la panna montata è arrivata infatti molto dopo e di ricotta era inizialmente la farcitura del maritozzo, il lievitato dolce romano per eccellenza.

La diffusione della ricotta romana si deve alla sua abbondante produzione soprattutto in quel periodo in cui a Roma la campagna romana, con le sue greggi al pascolo, lambiva il centro abitato e alla sua particolare dolcezza che la rende egualmente adatta alle preparazioni dolci non meno che a quelle salate, come la farcitura della pizza romana alla pala.

Andando indietro nel tempo sino all’Antica Roma vale ricordare che la ricotta, rigorosamente di pecora, è l’ingrediente principale di una delle focacce più antiche, il «Libum», la cui ricetta è contenuta nel «De agri cultura» scritto nel 160 a.C. da Marco Porcio Catone: «Libum hoc modo facito: casei p. II bene disterat in mortario, ubi bene distriverit, farinae siligineae libram aut, si voles tenerium esse, selibram similaginis solum eodem indito permiscetoque cum caseo bene; ovum ununm addito et una permisceto bene. Inde panem facito, folia subdito, in foco caldo sub testu coquito leniter».

Il nome di questa focaccia, che ha la stessa radice di libagione, nel suo significato arcaico di cibo offerto alla divinità, ne attesta il ruolo rituale e quindi, indirettamente, l’importanza che i Romani attribuivano alla ricotta.

Una presenza costante per i Romani, quella della ricotta, al punto da finire nei dipinti delle case e dei templi: gli scavi di Pompei hanno portato alla luce due dipinti nei quali la ricotta compare ancora nella sua fuscella: uno nel tempio di Iside e l’altro, assieme ad un mazzo di asparagi, nella domus dei Vettii, ricchi commercianti pompeiani.

Eccellente la definì Pellegrino Artusi, così avaro di riconoscimenti per i prodotti non toscani, nel descriverne l’impiego nel fritto di ricotta, cioè la ricotta fritta, tipica preparazione natalizia della cucina romanesca.

Apocrife, nel senso di non codificate dai testi di cucina, ma non meno legate all’agro romano, le polpette con fave fresche, pecorino, mentuccia e ricotta.

La ricotta è anche la base dell’unico dolce al cucchiaio della cucina romanesca, la ricotta condita: una crema a freddo fatta con la ricotta romana, lo zucchero e, per i più piccoli, il cacao mentre gli adulti possono sostituire al cacao la polvere di caffè macinata finissima e aggiungervi uno schizzo di Anisetta.

Di antica tradizione sono i bocconotti, pasticcini di pasta frolla con un ripieno di ricotta, tuorli d’uovo, canditi e cannella e ancor più antica è la crostata di ricotta con la confettura di visciole della tradizione giudaico-romanesca in cui la pasta frolla viene farcita con uno strato confettura di visciole su di uno di ricotta e, talvolta, ricoperta di un altro disco di pasta frolla. La sua invenzione si deve alla necessità di aggirare l’odioso «Editto sopra gli Ebrei» di Papa Pio VI che vietava agli ebrei romani di fare commercio con i cristiani anche della ricotta che quindi veniva occultata dalle visciole alla vista delle guardie pontificie.

La ricotta in cucina

Il primo consumo della ricotta nelle sue differenti versioni è stato, ed è tutt’ora, in purezza in sostituzione del formaggio spalmabile.

Un cibo alla portata di tutti come dà testimonianza il celebre dipinto detto i «Mangiatori di ricotta» del pittore cinquecentesco cremonese Vincenzo Campi. Il quadro restituisce un’immagine contadina di straordinario realismo e pur non facendo nulla per celare, nei volti e nelle mani dei protagonisti, i segni lasciati dalle loro condizioni di vita, trasuda di autentica allegria e di sensualità. La ricotta, su cui, con le bocche aperte, si avventano i contadini, diviene occasione di abbandono al piacere.

Ed in purezza dovette far parte della cucina medievale da cui, leggenda vuole, dopo un periodo di oblio, rientrò grazie a San Francesco d’Assisi.

Se infatti Maestro Martino nel «Libro de arte coquinaria» del 1465 fornisce una ricetta di «Ricotta contrafacta in Quadragesima» è segno che quella di siero doveva essere talmente in uso da richiedere un sostituto quaresimale e di «recocta» parla anche Bartolomeo Sacchi detto Plàtina che pure al libro di Maestro Martino s’ispirò.

Praticamente sconosciuta alla cucina francese, che sino alla metà del 1800 dominò nel gusto quella occidentale delle classi agiate e divenne sinonimo di raffinatezza, era invece assai utilizzata da quella araba alla quale si deve l’invenzione della Cassata, forse il dolce siciliano a base di ricotta più noto, il cui nome deriverebbe dal «quasat», una scodella tonda.

Alla fine del 1600 la ricotta aveva già fatto ingresso nella cucina colta in una serie di preparazioni dolci, salate e dolci-salate.

Lo attesta Antonio Latini ne «Lo scalco alla moderna» del 1694 che così descrive l’uso della ricotta: «la Ricotta si potrà accommòdare in tutti li modi, o vivande che sì faranno del Capo di Latte, doppo temprata con latte nelle vivande, e nelle Torte, riempieture, che si faranno, e Tórtelletti. Se ne fanno diverse sorti di Ravioli con sfoglio e senza sfoglio, con Ova, Zuccaro, e Formaggio grattato ovéro fresco, e pesto insieme dentro con Spezie, e Erbette buone tagliate minutamente e doppo cotti in acqua con Sale abbastanza dentro si servono caldi con Formaggio grattato, Zuccaro e Cannella sopra. Si passa per Siringa con Acqua Rosa e Zuccaro, e se ne fanno Tondini e Piatti come sopra. Se ne fanno Crostate e Pizze scoperte con Ova, Zuccaro e Cedronata dentro. Se ne fanno diverse Minestre di magro e di grasso, con dentro Foglia molla. Se ne fanno Gattafure [torte pasqualine ndr] alla Genovese con Ova, Bieta, Zuccaro e sue Spezierie. Se ne fanno Pappardelle alla Romana doppo pestata con chiara d’Ova e Zuccaro dentro e involto in Pangrattato passato per Setaccio, overo fior di Farina, e si potranno friggere in buono Strutto e si serviranno calde con Zuccaro sopra. Potrà servire la detta Ricotta per Antipasto con Acqua Rosa e Zuccaro».

Siamo ancora ben lontani, tuttavia, dal gusto contemporaneo: il migliaccio, ad esempio, dolce carnevalesco napoletano che oggi si prepara con ricotta, uova, zucchero, burro, vaniglia e semolino, ne «Il cuoco galante» di Vincenzo Corrado, un vero best-seller per la sua epoca (1773), era fatto con ricotta, sangue e cervello di maiale, midollo di Manzo, zucchero, cedro candito e spezie.

Corrado, invece, anticipò i cosiddetti gnudi: ravioli di ricotta e verdura senza sfoglia da cuocere direttamente in acqua o brodo bollente, mentre per avere il riconoscimento su di un ricettario dei ravioli fatti con ricotta e spinaci occorre attendere Francesco Leonardi ed il suo «Apicio Moderno» del 1790.

Delle origini dei piatti popolari a base di ricotta sappiamo ancora poco soprattutto perché le dosi spesso erano approssimative e la composizione variava da una località all’altra.

Quello che sappiamo con certezza, invece, è che la cremosità della ricotta fresca la rende ideale per farciture e ripieni, mentre soffre il calore diretto che la scompone.

Da qui l’uso in una serie quasi infinita di torte, pasticci, tortelli e cappelletti, da sola o con verdure di stagione, ed alcune trasformazioni, come la ricotta salata, affumicata, infornata che, oltre che allungarne la durata ed accentuarne il sapore, la rendono più stabile.

La Pastiera napoletana

Se la diffusione della produzione della ricotta nelle sue diverse forme rende di fatto impossibile elencare tutte le preparazioni dolci e salate in cui è protagonista soprattutto nel periodo pasquale, è altrettanto impossibile non menzionare la Pastiera napoletana che la tradizione vuole abbia origine nel Convento di San Gregorio Armeno.

Negli ultimi anni, complice la diffusione della cucina partenopea come parte integrante della cucina nazionale, la Pastiera, un tempo preparata, soprattutto a livello casalingo, solo a Napoli e nei suoi dintorni, è finita col diventare, spesso con qualche cambiamento che fa storcere il naso ai puristi, l’alter ego pasquale del Panettone milanese natalizio al punto da essere entrata, con sostanziali modifiche rispetto a quella familiare napoletana, nelle preparazioni del bresciano Iginio Massari, probabilmente il Maestro Pasticcere contemporaneo più noto.

Se alcuni ingredienti: la ricotta, le uova, lo zucchero semolato, il grano (che ha sostituito da tempo immemorabile il farro) macerato e poi cotto nel latte, l’aroma di fiori d’arancio, sono generalmente riconosciuti come comuni, altri, come la base della frolla (detta pettola in dialetto) che per alcuni si fa con lo strutto e per altri con il burro, la cannella, il cedro candito, variano da famiglia a famiglia e spesso variano anche all’interno della stessa famiglia da una generazione all’altra generando polemiche che si ricomporranno al pranzo pasquale, ma riprenderanno alla prossima Pastiera.

È quindi impossibile individuare la «ricetta originale» della Pastiera o meglio lo sono tutte in diversa misura e tutte meritano un assaggio in quel rito sociale, credo ormai perduto, della visita la mattina di Pasqua ai parenti per fare gli auguri e ovviamente assaggiare la «loro» Pastiera ed aprire infinite discussioni.

Per accontentare, o scontentare secondo i punti di vista, i suoi cultori si può allora completare questo excursus sulla Pastiera con la ricetta di Ippolito Cavalcanti, considerato a ragione il padre della moderna cucina napoletana, che la riportò, senza citarne l’origine, nella sua «Cucina teorico-pratica» del 1839.

«Piglia miezo ruotolo de grano buono, e sciveto aceno aceno [sgranato chicco a chicco ndr], se nfonne, e po lo pise dinto a lo mortaro, raperò senza farlo rompere ma co lo pesatura arravogliannolo sempe pe dint’ o lo stesso mortaro pe farne luvà chella vrenna, ncioè, cheIla scorzetella che tene; doppo lo miette a bollere pe 24 ore, e quanno sè cuotto lo farraje buono arrefreddà, e po piglia no ruotolo de recotta bona senza siero, la mmische co lo grano, dannoce nauta pesatella dint’ a lo mortaro, doppo nce miette doje rotola de zuccaro fino, e pistato, no pocorillo de sale, nce sbatte na dozzana d’ova, e n’onza de cannella fina, e no tantillo d’acqua, e quanno s’è buono rammollato, nce miette tutte sciorte de sciuruppate; farraje la pasta ordinaria dinto a na tiella sodonta de nzogna, e cce miette la paparotta de la pastiera facennoce ncoppa na gratiglia de pasta purzì [pulita ndr], e la farraje cocere a lo forno. Vì ca chesta è la pastiera la chiù accellente che nce pozza essere».

Va aggiunto che la «pasta ordinaria» di Cavalcanti era, presumibilmente, la sua pasta frolla (che lui suggeriva di utilizzare per torte di ogni maniera) di cui pure fornì la ricetta: «prendi un rotolo di fior di farina, mezzo rotolo di zucchero scuro, mezzo rotolo di sugna, un pochino di sale, raspatura di limone o Portogallo [arancia ndr], e dodici rossi d’ovi freschi, ed impasterai tutto sollecitamente senza maneggiarla molto».

La ricotta nei sogni di una giovane contadina

Forse il modo migliore per concludere questo racconto iniziato con una filastrocca ed un gioco di strada cittadini è una favola che racconta il rapporto con la ricotta di una giovane contadina.

Non una favola a lieto fine, piuttosto un monito a tenere la schiena dritta ed i piedi ben piantati per terra e tra le tante versioni che circolano in rete ho scelto quella in versi del «contastorie».

«La ricottina»

«Una volta c’era una bella bambina,
una contadinella chiamata Mariettina.
Un po’ ambiziosa, ma assai poveretta,
in regalo ebbe un dì una ricotta.
Sfamarsi non volle, ma in tutta fretta,
con la ricotta, dentro un cestello,
sopra la testa come un cappello,
s’incamminò verso il mercato,
ove denaro ne avrebbe cavato.
E nell’andare pensava, sciocchina,
“Con il ricavo comprerò una gallina
che farà uova in gran quantità,
e col guadagno un coniglio ci sta.
Poi la coniglia farà tanti figli,
e dalla vendita dei nuovi conigli,
comprar potrò un magro suino,
che renderà grasso più d’un quattrino.
Coi nuovi soldi acquisto una vacca,
e sarà allora la vita una pacchia,
perché dal latte e dai vitellini
verranno tanti, tanti quattrini.
Comprarmi potrò una bella casetta,
con una terrazza che si rispetta,
ed ognuno che passa vicino,
con invidia, mi farà un inchino.
E immaginando quella gran festa
fatto le venne d’inchinare la testa.
Rotolò nel fango la fresca ricotta,
tutta si sparse e tutta andò rotta.
Così rimase, alla sventatella,
solo il rimpianto di una vita più bella
.».

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