In un simpatico sketch, Corrado Guzzanti interpretava Luttwack (foto) e teneva al guinzaglio un “antagonista” che non si riconosceva nei partiti della destra e della sinistra istituzionale. Luttwack-Guzzanti, guardando severamente il suo “prigioniero”, lo ammoniva, dicendogli che non esiste via alternativa ai due principali “poli” politici che, poi, sono la stessa cosa. Se guardiamo alla dottrina economica che ispira l’attuale “sinistra” di governo, possiamo senza alcuna remora affermare che Guzzanti non si sbagliava affatto.
Bisogna a questo punto argomentare questa affermazione, nonostante gli angusti spazi che un articolo consentono. Proviamoci. A partire dalla seconda metà dell’ottocento, in economia si è affermato quello che, progressivamente, sarebbe divenuto il paradigma dominante. Esso fonda la teoria del valore sull’utilità che il singolo individuo può trarre dai beni e, attraverso la formalizzazione matematica, ha cercato di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il mercato è in grado, attraverso il processo di formazione dei prezzi, di raggiungere una posizione di equilibrio senza alcuna necessità di interventi esterni (leggi da parte dello stato). Questo ha condotto a sacrificare la teoria della produzione, che viene invece concepita come una sorta di scatola nera in in cui si trasformano capitale e lavoro in beni e servizi da offrire sul mercato. La distribuzione del prodotto è invece una sorta di legge naturale che viene a discendere dal contributo marginale dei fattori. Infine, è prevalsa l’idea che l’offerta (leggi la produzione di beni) è in grado di eguagliare la domanda e che il sistema tende a un equilibrio di pieno impiego dei fattori.
Questo paradigma ha interrotto il filone classico e quello marxiano, che suglii strumenti analitici del primo fonda, e dopo un’aspra lotta è riuscito ad annichilire le idee di Keynes, i cui primi “seguaci” hanno ripreso anche alcuni temi classici. Prendete nota lettori: Marx fa ricorso al metodo classico, ancorché ciò gli serva per dimostrare le contraddizioni del capitalismo e anelare al suo superamento. Keynes, così come i classici, è invece elemento interno al capitalismo che vuole riformare.
Guardiamo allora a quali sono le peculiarità che contraddistinguono questi filoni da quelli del vincente “marginalismo” più sopra citato. In primo luogo, Keynes, riprendendo alcuni temi cari già a pensatori di qualche secolo prima come Sismondi e Malthus, afferma che l’equilibrio di pieno impiego e piena occupazione non è che un’eccezione: la regola è l’equilibrio di sottoccupazione. Il problema è quindi quello di una possibile carenza dal lato della domanda aggregata capace di mettere in crisi il sistema produttivo. Il mercato non è in grado di regolarsi da solo, di tendere a un siffatto equilibrio: occorrono interventi da parte dello stato in grado di correggere la rotta.
Un secondo aspetto che contraddistingue il filone post-keynesiano di prima generazione è il ritorno a un modello di produzione diverso dalla “black box” marginalista. Il mirabile lavoro di Sraffa, intitolato produzione di merci a mezzo di merci, ci fa vedere come esiste una relazione tra i settori del sistema produttivo e che alcuni particolari segmenti di esso sono in grado di attivare una domanda più che proporzionale: per fare un automobile bisogna far lavorare il settore dei pneumatici, che a sua volta attiverà quello della gomma e così via. Un terzo aspetto, sempre evidenziato da Sraffa, si riconnette alla questione distributiva. Egli, in particolare, dimostra ciò che in Adam Smith non è niente di più che un’intuizione: la distribuzione del reddito tra lavoratori e capitalisti è un accidente storico che dipende dalla forza contrattuale delle parti, variabile nei diversi momenti storici. Infine la teoria del valore, che viene fatta discendere dalla distribuzione e che in Marx è intesa come pura teoria del valore lavoro.
La sinistra italiana ha avuto una prima fase di adesione al marxismo, per poi virare, una volta ritenuta non attuabile la rivoluzione comunista, al keynesianesimo e al post keynesianesimo. Questo ha significato focalizzare l’attenzione, nel contesto del riduzionismo che contraddistingue l’economia politica, alla teoria della produzione, ritenendo inoltre il mercato incapace di equilibrare la dinamica di alcune variabili fondamentali quali gli investimenti e i consumi e concependo la distribuzione come aspetto fondamentale per sostenere la componente dei consumi della domanda aggregata.
Tutto questo non esiste più nell’attuale assetto dottrinale della sinistra italiana. Oggi si parla di deconcentrazione dell’offerta, di compressione delle dinamiche reddituali e si presta poca attenzione alla produzione. Una scatola nera è una scatola nera, no? Poco importa, secondo loro, se fondata su processi inefficienti, se si distrugge la produzione di merci a mezzo di merci perché si delocalizza o si importano i beni intermedi necessari per le produzioni dei beni di consumo.
La domanda di fondo è: per quale ragione si dovrebbe preferire, sul piano economico, una compagine che è uguale ai suoi antagonisti politici? Difficile dare una risposta, ma ciò che appare più arduo è concepire la ragione per la quale una vasta coorte di elettori cresciuti a pane e pensiero economcico eterodosso si è arresa alla filosofia del marginalismo turbocapitalista. Una risposta può venire dal modello di istruzione dominante. A scuola impariamo la differenza tra un legame ionico e covalente, i principi della dinamica, il pessimismo storico e cosmico in Leopardi, il pensiero filosofico dai presocratici ad Heidegger ma nessuno ci insegna a guardare con occhio disincantato ai processi economici.
di Joe Di Baggio
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