Accompagniamo Gesù mentre vive gli ultimi momenti della sua vita pubblica. Dal Vangelo di questa domenica (Mt 23, 1-12), infatti, sappiamo che il Maestro è a Gerusalemme e le ultime battute della sua predicazione hanno parole di fuoco contro gli scribi e i farisei, coloro che erano considerati impeccabili, guide spirituali ‘apparentemente’ autorevoli, i maestri di turno che attraverso lo sfoggio della loro cultura sapevano ben esercitare un forte ascendente sul popolo.
Al pari degli antichi profeti che attraverso la voce di Dio riprendevano aspramente la cattiva condotta di questi falsi maestri, anche Gesù denuncia il loro agire disonesto in maniera molto schietta. Il Maestro non mette in dubbio la loro autorità, anzi, ne è molto rispettoso ma evidenzia i loro abusi e li elenca: “Dicono e non fanno” perché la loro vita non è per nulla coerente con il loro insegnamento; e ancora, “allargano i loro filattèri e allungano le frange” per evidenziare la loro devozione per la legge.
I filattèri erano scatolette di cuoio che si portavano legate al braccio e alla fronte e contenevano alcuni testi brevi della Legge mosaica; le frange, invece, erano quattro fiocchi che rimanevano appesi agli angoli della veste ed avevano lo scopo di ricordare agli ebrei, secondo Nm 15, 38-41, la stretta osservanza dei comandamenti. Infine, “amano sentirsi chiamare dalla gente rabbì” per essere venerati e adulati. Sarebbe troppo facile mostrare attraverso esempi concreti come quegli stessi atteggiamenti denunciati da Gesù si ripetano allo stesso modo anche oggi, nei più diversi settori della società. Come cristiani, quindi, ci sentiamo interpellati in prima persona a prendere sempre più coscienza che il far parte della Chiesa non significa essere esenti da tali limiti.
Quando l’evangelista Matteo scrive il Vangelo pensa certamente ai capi dei farisei che all’epoca guidavano la sua comunità giudaica e nello stesso tempo, però, vuole correggere anche le medesime contraddizioni, presenti anche all’interno della sua nascente comunità cristiana. L’insegnamento di Gesù, quindi, vale anche per noi: “Non fatevi chiamare rabbì; non chiamate nessuno padre sulla terra; non fatevi chiamare maestri”. Per Gesù, non è una questione di titoli ma una questione di contenuti che si nascondono dietro quei titoli. L’evangelista quando scrive ha le idee chiare sulla concezione di ‘Chiesa’ e tale concezione, dal momento che non si tratta di mettere in gioco una sciocca vanità, intende difenderla a spada tratta.
I membri della grande famiglia cristiana, perciò, sono tutti considerati “fratelli”, figli di un solo Padre e discepoli dell’unico Maestro, il Cristo. Tutti, senza alcuna eccezione, godono di un’uguale dignità e ciò che Gesù ha più a cuore per i suoi discepoli è la relazione che essi instaurano con Dio, un rapporto Padre-figlio. Se Gesù chiede ai discepoli di non farsi chiamare maestro, padre, guida, egli desidera, tuttavia, che essi si comportino come maestro, padre e guida, ma senza smarrire il senso della paternità di Dio. In altri termini, i cristiani siano maestri, padri e guide, ma solo ed esclusivamente per ‘servire’ i fratelli. Gesù, quindi, non nega la presenza di un’autorità nella Chiesa, ma afferma in essa un ‘servizio d’amore’:“Il più grande tra voi sia vostro servo – ed ancora – chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato” (Mt 20,26-28).
Nella famiglia di Gesù, quindi, non c’è autorità ma autorevolezza; non c’è dominio, ma servizio, volontario, libero e disinteressato. Perciò, colui che è chiamato nella comunità a svolgere un compito preciso, deve saper bene uniformarsi “all’amore che serve”, imitando, in tutto, il modello supremo, Gesù stesso che, per amore “si è abbassato fino alla morte ed è stato glorificato dal Padre” (Fil 2,6-11). Interessante a questo proposito, è l’esempio che ci viene dalla seconda lettura (1Ts 2,7-13) con la testimonianza dell’Apostolo Paolo che, “perfetto imitatore di Cristo”, svolge un “servizio materno”, cioè, un servizio pronto a sacrificare la propria vita, proprio come farebbero le mamme con i propri figli. La comunità ecclesiale diventa allora “il luogo privilegiato” nel quale l’esperienza di Dio come Padre e quella dei cristiani come fratelli, determina ogni tipo di relazione. Di conseguenza, nessuno potrà mai essere additato come un ‘estraneo’ o un ‘rivale’, ma un “fratello per il quale Cristo è morto” (1Cor 8,11); un altro prossimo da amare “come se stessi” (Mt 22,39); infine, un altro Gesù perché ciò che “avete fatto ad uno di questi fratelli più piccoli lo avete fatto a me” (Mt 25,40).
Se noi cristiani vivessimo con più coerenza la fraternità e se fossimo un poco più accoglienti verso chi ci sta a fianco, quanti fratelli e sorelle lontani dall’istituzione ‘chiesa’ a causa della cattiva testimonianza, sentirebbero la nostalgia di far parte di questa famiglia. La società di oggi, purtroppo, sposando gli ideali fuorvianti del piacere, dell’estetica, dell’apparire, del protagonismo ha condizionato di non poco l’essere e l’agire cristiano, quasi camuffandolo, confondendolo. La critica severa e serrata che Gesù muove agli scribi e ai farisei, purtroppo, tocca direttamente anche noi, soprattutto quando vogliamo a tutti i costi che Dio stia sempre alle nostre richieste, quando facciamo della nostra fede uno strumento per innalzare l’io e non Dio, quando la nostra relazione con il Padre e con Gesù non convince perché ridicola o superficiale. Chiediamo la grazia di essere coerenti ed invochiamo Maria, la Madre tutta dedita al servizio perché ci insegni ad essere immagine “dell’amore che serve”, anzi di “Gesù che serve”. È possibile! I Santi, uomini come noi, ci sono riusciti; e noi perché non potremmo riuscirci?
Fra’ Frisina
Foto: psicozoo.it
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