Immortalato nel 33° canto dell’Inferno dantesco, il conte Ugolino della Gherardesca è protagonista di una torbida vicenda politica della seconda metà del Duecento, dalla quale ne esce condannato ad una morte orribile, insieme ai suoi figli ed ai suoi nipoti
6 agosto 1284: battaglia della Meloria
La guerra tra Pisa e Genova per conquistare la supremazia sui mari era arrivata ad un punto topico con la battaglia della Meloria, piccola isola al largo di Livorno, dove i genovesi schierarono novantaquattro galere al comando generale di Oberto Doria ed i pisani centodue agli ordini del podestà Alberto Morosoni. La tattica di battaglia attuata dai genovesi fu semplice ed efficace: traendo in inganno i pisani, inizialmente schierarono solo sessantaquattro galere, tenendone trenta al riparo dell’isola, al comando di Benedetto Zaccaria. Credendosi numericamente superiori, i pisani andarono allo scontro, subendo una drammatica sconfitta che costò loro molti uomini: cinquemila caduti e diecimila prigionieri.
Ugolino della Gherardesca
Tra i comandanti della flotta pisana spiccava il nome di Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, illustre artefice del trattato tra Pisa e Carlo d’Angiò di dodici anni prima. Dalla battaglia della Meloria non uscì bene, però. La manovra che ordinò al proprio contingente navale assomigliò ad una ritirata strategica e venne accusato da alcuni cronisti a lui contemporanei d’aver mascherato dietro la disfatta un proprio maldestro tentativo di fuga. Ma la storia, si sa, in assenza di prove documentate, cambia a seconda di chi la racconta e quella di Ugolino della Gherardesca, in particolare, è densa di opinioni divergenti che la rendono, in realtà, ancora oggi per la maggior parte sconosciuta.
Nuovi venti soffiarono a Pisa
Terminata la guerra, avendo il Morosoni tra i prigionieri, Pisa aveva bisogno di un nuovo podestà ed il Consiglio Generale elesse Ugolino. Genova, nel frattempo, volendo indebolire ulteriormente Pisa col tesserle intorno una rete di nemici legati tra loro, andava stringendo alleanza con le principali città guelfe della Toscana, che erano, poi, quelle meglio in armi, ossia Firenze, Lucca, Pistoia, Siena, Prato e Volterra. A voler rimanere radicalmente ghibellina, com’era tradizione, Pisa rischiava il definitivo annientamento. Ugolino, pertanto, pur d’origini ghibelline, si aprì al guelfismo. Nel suo disegno c’era dapprima un riavvicinamento alle città toscane che Genova aveva attratto a sé e, poi, la negoziazione di una tregua con Genova per loro tramite.
Certe alleanze hanno un costo, però, si sa. Tra le rinunzie pisane spiccarono i castelli di Asciano, Avane, Ripafratta e Viareggio.
Genova, nel frattempo, cercò di contrattare con Pisa la restituzione dei prigionieri a fronte del pagamento di una somma, ma Ugolino temporeggiò a lungo. L’aver trasformato Pisa in una città guelfa lo avrebbe esposto, infatti, alla vendetta dei rimpatriati, qualora avesse acconsentito alla loro liberazione. Si consolidò, dunque, l’idea che costoro restassero prigionieri a Genova ed il continuo flusso di parenti pisani che ivi si recavano per visitarli divenne proverbiale, tanto che, ancora oggi, si usa dire: “Chi vuol vedere Pisa vada a Genova”.
La nuova veste di notabile guelfo non gli andava affatto stretta, a dirla tutta. Del resto era guelfa la schiatta che più ammirava, ossia i Visconti di Milano, con un ramo collaterale dei quali aveva persino stretto legami di parentela, avendo concesso in sposa sua figlia a tal Giovanni Visconti, giudice di Gallura.
E fu proprio con suo nipote Nino, nato da questa unione, che, negli anni seguenti, Ugolino si unì nel governo di Pisa. Acquisendo il titolo di Rettori e Governatori del Comune, nonno e nipote riformarono il Breve Communis Pisani ed il Breve Populi Pisani.
L’ambizione e la sete di potere che li accomunava, però, ben presto divenne motivo di discordia e nel conflitto, ovviamente, entrarono alcune famiglie di notabili locali che tentarono la restaurazione ghibellina. Tra costoro gli Ubaldini, in particolar modo tal Ruggieri, arcivescovo di Pisa per nomina di papa Niccolò III.
Fiducia mal riposta
Ruggieri individuò nel conflitto che divideva Ugolino e Nino Visconti un’occasione per restituire Pisa ai ghibellini, governandola da solo. Si finse amico di Ugolino e con questi tramò alle spalle del Visconti, assumendosi l’onere di spodestarlo. Era nei patti loro che, nel mentre, Ugolino si allontanasse dalla città per non essere direttamente coinvolto. E così fece. Subito dopo, però, Ruggieri cercò di impedire il suo rientro ed al conte non rimase altro da fare se non forzare il blocco posto attorno alla città. Era il 30 giugno 1288.
Ovviamente Ugolino, appena rimesso piede a Pisa, affrontò infuriato l’Ubaldini, il quale, rifiutata categoricamente l’offerta di un governo condiviso, chè Ugolino non era più nella condizione di pretendere cariche, consolidò la propria posizione di podestà ed affrontò il suo rivale, coadiuvato da alcune delle più illustri famiglie pisane: i Gualandi, i Sismondi, ed i Lanfranchi. Con questa sua improvvisata ma non poco potente lega vinse facilmente le esigue forze di Ugolino, lo fece arrestare insieme ai suoi figli, Gaddo ed Uguccione, ed ai suoi nipoti, Anselmuccio e Nino, e lo processò per alto tradimento, ossia tradimento della patria, perpetrato non tanto attraverso la cessione di castelli e territori, quanto con la soppressione dello spirito ghibellino in favore di quello guelfo, con il cambiamento della corrente politica al governo contro il volere della maggioranza dei cittadini. Tenuto conto delle frequenti lotte intestine in seno ad una stessa città, infatti, nel Medioevo il concetto di patria coincideva più con l’interesse della maggioranza, che con un territorio.
Orbene, pur volendo trascurare il fatto che, in assenza dell’alleanza guelfa promossa da Ugolino, Pisa non avrebbe più goduto d’autonomia alcuna, talché il tradimento era stato, in realtà, un rimarchevole espediente strategico, le colpe di Ugolino non erano di certo più grandi di quelle del Ruggieri. Entrambi, infatti, avevano governato mossi anche da un proprio forte interesse, dalla brama di potere personale, dal desiderio egoistico d’essere soli al comando della città. Proprio per questo la messa a morte di Ugolino, dei suoi figli e dei suoi nipoti, da parte di Ruggieri, suo pari nei torti fatti a Pisa ed ai pisani, pare ancora oggi sproporzionata.
Una disumana condanna
I prigionieri vennero rinchiusi nella Muda, la torre che si affacciava sull’antica piazza delle Sette Vie, un tempo adibita alla muta delle aquile, donde il suo nome. Inglobata, sin dall’XI secolo, nel palazzo Gualandi, oggi palazzo dell’Orologio, dopo la prigionia di Ugolino e della sua progenie si guadagnò l’appellativo di Torre della Fame e fu adibita a prigione tanto che un’ala di quel palazzo divenne palazzetto di giustizia.
Fu una lunga prigionia. Per quasi un anno, dal luglio 1288 al marzo 1289, i condannati restarono rinchiusi senza che fossero presi provvedimenti nei loro confronti.
L’incarcerazione di Ugolino, tuttavia, stava cominciando a sollevare dubbi nelle città guelfe di Toscana, con le quali egli aveva stretto alleanza; dubbi che avrebbero potuto presto trasformarsi in richieste di spiegazioni, in biasimo, in violenza. Ruggieri degli Ubaldini, pertanto, ritenne di doversi liberare di ‘sì scomodi prigionieri il prima possibile: senza che i pisani ne sapessero nulla, fece chiudere qualunque accesso alla torre e fece gettare le chiavi in Arno, murandoli vivi. Presto avrebbe dato la notizia della loro morte, per ben diversa causa, ovviamente, ed ogni murmure si sarebbe placato.
I prigionieri, dunque, non erano più raggiungibili da alcuno, nemmeno da chi, pietoso, avesse voluto portare loro da mangiare e da bere. La punizione ideata ed attuata da Ruggieri fu atroce: Ugolino, i suoi figli ed i suoi nipoti, come previsto, morirono di inedia.
La scelta di coinvolgere nel supplizio anche i figli ed i nipoti era tesa ad evitare che la salvezza anche di uno solo di loro potesse dare adito a giusta vendetta. La decisione di tenere questo segreto, invece, mirava a scongiurare che i guelfi toscani potessero intervenire manu militari contro Pisa, quasi Ugolino, in forza dell’ingiustizia subìta, potesse incitarli dall’aldilà.
Ugolino nell’inferno dantesco
Come accennato, il Sommo Poeta immortala nei suoi versi la vita di Ugolino. Non potendo cambiare la storia od ignorare il tradimento per cui era stato giudicato, lo colloca nell’Antenora, la seconda zona, dedicata ai traditori della patria, in cui è distinto il nono cerchio dell’Inferno, così chiamata da Antenore, colpevole d’aver favorito l’ingresso dei Greci a Troia, sua città.
Dante, però, non si limita a descrivere Ugolino della Gherardesca segnato dalla sua infamia; ne mostra anche l’umanità, ne descrive il dolore, interpreta ciò che lo affligge e ciò che affligge i figli ed i nipoti, i quali, strazio nello strazio, gli chiedono aiuto, poco prima di morire; un aiuto che lui, fatalmente, non può dare.
Vuole una leggenda, scritta da chi non l’ebbe in simpatia, che Ugolino si sia cibato dei cadaveri dei suoi stessi figli, ma non v’è ragione di crederlo. Anche i versi danteschi sono stati a lungo oggetto di simile lettura:
“Vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ‘l quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti:
poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.
Ciò di cui il Poeta parla non ha, secondo me, nulla a che fare con il cannibalismo, ma solo con uno sconfinato dramma umano: dopo aver ascoltato impotente lo strazio della fame e della sete nei suoi ragazzi, li chiama, perché non vede più. Li chiama per due giorni. Poi, stremato dal digiuno, ormai conscio della loro morte, li segue nella tomba, lasciando che la fame faccia quello che non è riuscito a fare l’immenso dolore.
E’ un eroe sfortunato l’Ugolino dantesco; un uomo perso nella sua tragedia politica e personale, umana, genitoriale. L’amor guelfo muove Dante in favore di un altro guelfo, seppure ghibellino pentito, e persino la pena che gli riserva è, in realtà, una vendetta:
“La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola ‘a capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto”
E’ la testa dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini quella di cui si ciberà in eterno Ugolino. Restituendogli il potere che gli era stato strappato con l’inganno e la violenza, Dante lo fa carnefice del suo carnefice. Un contrappasso che, pur nella brutalità di cui è colmo il cono luciferino, gli rende infine giustizia.
di Raffaella Bonsignori
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