La storia “dell’utero in affitto” o come eufemisticamente viene definita “maternità surrogata” ovvero di prendere una donna farla partorire per “conto terzi” non è purtroppo una novità.
Fino agli anni settanta del secolo scorso, la donna che partoriva al di fuori del matrimonio da “nubile” aveva due strade. Una tenersi il figlio ed essere additata come “ragazza madre” sopportando, quantomeno se andava, bene le dicerie malevole del vicinato, o peggio espulsa dalla famiglia, oppure fare un gesto ancora più duro e doloroso, quello di consegnare il bambino “figlio della colpa” alle istituzioni, generalmente religiose, perché se ne occupassero loro. Alcune rimanevano in contatto, altre sparivano per sempre.
Esisteva anche un altro metodo, in uso fino ai primi del 900, quello della “ruota o rota degli esposti”. Questa consisteva in un cilindro girevole in legno, diviso in due parti chiuse da uno sportello: uno verso l’interno ed un’altro verso l’esterno che, combaciando con un’apertura su un muro, permetteva di collocare, senza essere visti dall’interno, i bambini che si volevano abbandonare.
Facendo girare la ruota, la parte con il bambino veniva immessa nell’interno dove, aperto lo sportello si poteva prendere il neonato per dargli le prime cure. Spesso vicino alla ruota vi era una campanella, per avvertire di raccogliere il neonato. A Roma era presso l’Ospedale S. Spirito.
Se la madre “nubile” decideva comunque di riconoscere il figlio, all’anagrafe risultava come paternità “N.N.” ovvero dalla dicitura latina “nomen nescio” (nessun nome) e siccome allora nei documenti era obbligatorio segnalare il nome paterno e materno, la mancanza della paternità rimaneva come un marchio negativo. Figlio di N.N.
Per fortuna la riforma del diritto di famiglia, attuata nel 1974, eliminò questa procedura, dando ampia possibilità alla madre di poter partorire anche in anonimato.C’era anche un’altra soluzione più o meno clandestina “vendere” il bambino prima che nascesse. La procedura era semplice. Si trovava una madre in gravi difficoltà economiche, oppure che non voleva il bambino, e tramite mediatori una famiglia lo “comprava”.
Si mandava la donna “adottante “ lontano dal suo ambiente, per “cure”, in modo che nessuno in seguito si insospettisse, fino al momento del parto della madre naturale. Si faceva tutto in luoghi compiacenti, dove si scambiava il bambino appena nato, che veniva registrato normalmente all’anagrafe con il nome della nuova famiglia.
Era illegale, ma succedeva. Ora viene considerato in alcuni Stati legale a garanzia, per alcuni, di una evoluzione dei costumi e di presunte libertà. Non più una scelta drammatica per la madre naturale, ma una concezione che sa di semplice “mercato”.Dietro questo ovviamente si sta creando un giro di affari notevole, clandestino, con donne in difficoltà, vittime anche di abusi e di violenze, se per qualche ragione decidessero durante la gestazione di non accettare più l’accordo.
In questo contesto mi sento molto poco evoluto.
di Gianfranco Marullo
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