Delitto senza castigo. Il gruppo ProgettoQuindici è andato in scena ieri, al Black Box del Gasteig, centro culturale di Monaco di Baviera, con “L’ebreo” di Gianni Clementi. L’autore romano ha realizzato questo suo lavoro dieci anni fa e dal 2009 al 2011 lo ha portato sui palcoscenici di Spagna, Francia e Grecia.
In Italia “L’ebreo” è andato in scena con Ornella Muti in vari teatri di Roma e in tournée con 250 repliche. Nella rappresentazione di Monaco Francesco Dighera ha curato la regia. L’evento ha avuto il patrocinio dell’Istituto italiano di cultura.
La storia rimanda agli anni cinquanta, quando il ricordo della guerra era ancora vivo e quando gli italiani si affannavano a ritrovare un’identità nazionale aiutati dal boom economico e dall’avvento della televisione.
Siamo a Roma, in un appartamento borghese nel ghetto ebreo, non lontano dalla Sinagoga. Nell’appartamento ci vivono Immacolata (Valentina Fazio) e Marcello (Enrico Apicella), una coppia che trae la propria fonte di guadagno dagli affitti di appartamenti e negozi. Tito (Mathias Falco) è amico di una vita. Fa lo stagnino di mestiere e da giovane ha avuto con Immacolata una storia.
Buona parte della rappresentazione è stata recitata in dialetto, da una parte quello romanesco di Immacolata, dall’altra quello veneziano di Tito. Ma è stato soprattutto il romanesco a farsi notare, data anche la maggior presenza in scena di Immacolata. L’uso, su un palcoscenico all’estero, di un dialetto negli ultimi anni divenuto in Italia dilagante – se non ingombrante – grazie anche a frettolosi sondaggi e servizi televisivi che hanno dato voce a cittadini del popolo di Roma, è stato uno degli elementi salienti della rappresentazione teatrale. Ma il romanesco usato non è stato quello di Trilussa o Rugantino.
È stato quello odierno, sia pur riferito ad un contesto degli anni ’50. E, pur senza esagerare – fortunatamente, aggiungiamo – si é fatto notare per la volgarità di svariate battute alcune delle quali con espliciti riferimenti sessuali.
Il fatto che a parlare romanesco fosse Immacolata ha fortemente accentuato il suo ruolo di moglie infedele, cinica e venale, in palese contrasto con quello del marito Marcello, uomo semplice, ingenuo e credulone. A loro il padrone di casa, l’ebreo, aveva lasciato l’appartamento tempi addietro, durante il fascismo e dopo che le leggi razziali avevano reso difficile la vita degli abitanti del ghetto. Molti di loro, temendo espropri, avevano intestato il proprio appartamento a dei prestanome, a loro dipendenti o persone al loro servizio, con il tacito accordo di riottenerne, un giorno, il possesso.
Il padrone che, nelle paure di Marcello e Immacolata, dopo anni rivendica la sua casa, non appare in scena. Egli è solo la personificazione della paura che toglie il sonno e il senno ai due coniugi e che li porta a progettare la sua soppressione violenta.
Al termine della rappresentazione l’autore e alcuni degli attori hanno risposto alle domande di una intervistatrice (Simonetta Soliani) e del pubblico.
Un’ultima notazione riguarda la scelta del giorno della rappresentazione, il 27 gennaio, giornata della memoria. Riteniamo che molti, come chi scrive, abbiano acquistato il biglietto pensando di vedere una rappresentazione teatrale con contenuti riferibili alla tragedia dello sterminio degli ebrei. Dopo aver visto lo spettacolo non siamo in grado di dire quale sia il nesso tra “L’ebreo” e la tragedia dell’olocausto. Se c’era ci è sfuggito.
Innanzitutto ringrazio Pasquale Episcopo, che conosco personalmente, per essere venuto a vedere lo spettacolo e per la correttezza dimostrata inviandomi il link con l’articolo, informandomi in tal modo della pubblicazione. Nell’articolo ci sono due punti che, quale intervistatrice dell’autore, vorrei commentare.
In primo luogo l’uso del dialetto romano da parte di Gianni Clementi. Come si legge nell’intervista inserita nel libretto di sala e come si è ribadito dell’intervista alla fine dello spettacolo, Clementi dice di aver considerato questa scelta come un’”operazione rischiosissima e soggetta di partenza a forti pregiudizi, spesso, se vogliamo, giustificati per l’uso che se ne è fatto nei film”. Per quanto riguarda il personaggio di Immacolata ella non poteva usare che “un linguaggio sanguigno e popolano” trattandosi appunto di una persona del popolo che non può credibilmente parlare, come dice anche Episcopo, un dialetto romano come quello di Trilussa. Trovo quindi che il linguaggio, se pur a tratti volgare, non sia esagerato, ma serva a delineare maggiormente il personaggio di Immacolata, persona avida e senza scrupoli.
Su un secondo punto non sono assolutamente d’accordo e questo riguarda il titolo dell’articolo “L’ebreo senza memoria” che viene poi spiegato alla fine: la scelta impropria del 27 gennaio “Giornata della memoria” e la mancanza del nesso tra “L’ebreo” e la tragedia dell’Olocausto. Innannzitutto la scelta della giornata del 27 gennaio da parte di Valentina Fazio è stata una scelta ben ponderata in quanto il pezzo tocca un argomento mai affrontato dai vari documentari e film sull’Olocausto, ovvero quello della cessione forzata dei beni. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali e l’inizio delle deportazioni molti ebrei si sono visti costretti a cedere a dei prestanome immobili, esercizi e averi con un atto notarile valido. Come viene spiegato nella scena della telefonata al notaio, in questo caso l’atto notarile era stato affiancato da una scrittura a parte in cui si assicurava la restituzione dei beni al proprietario originario qualora questi fosse tornato alla fine delle persecuzioni. In questo caso il notaio afferma di aver distrutto tale scrittura, eliminando in tal modo la possibilità di una eventuale restituzione. Questo fatto non è un tema consueto affrontato dai media ed è da molti ignorato o dimenticato. Gianni Clementi ci riporta alla “memoria” che il dramma degli ebrei non è stato solo la deportazione nei campi di concentramento e non è finito con la liberazione, ma è andato avanti anche successivamente, ad esempio con il tentativo di recuperare le proprietà, processo tutt’oggi non ancora conclusosi. Anche questo fa parte della “memoria” e della tragedia dell’Olocausto. Come dice Episcopo, molti, compreso lui, si aspettavano un altro tipo di storia, asserzione lecita e giustificabile, e asserisce che egli e molti altri non siano riusciti a vedere il nesso tra lo spettacolo e la giornata della memoria.
Come mai allora né il pubblico in questione, né Episcopo hanno posto delle domande all’autore durante l’intervista a fine spettacolo per chiarire questi punti? Gianni Clementi è rimasto in sala finchè questa non si è svuotata. Anche in questo caso si sarebbe potuto consultarlo a quattrocchi se si avesse avuto timore di parlare in pubblico.
Simonetta Soliani
Grazie Simonetta.
Il tuo commento é una buona integrazione e aggiunge informazioni e dettagli ai contenuti dell’articolo. Il fatto che anche l’autore a fine serata abbia parlato del dialetto e si sia posto il problema del suo uso e/o abuso è in linea, mi pare, con le mie considerazioni. Per quanto riguarda il nesso con la tragedia dell’olocausto, resto del parere che non si sia visto, è ciò semplicemente perché mancava. Dico questo anche per aver ascoltato, uscendo dalla sala al termine della rappresentazione, i commenti di alcuni connazionali che pure non lo avevano colto. La questione di fondo è se “L’ebreo” rappresenti o meno un contributo a tenere viva la memoria e lo sdegno. Credo che, alla vigilia del 27 gennaio in una città come Monaco, questa domanda bisognava porsela. A mio avviso la risposta è no, non contribuisce affatto, anzi rischia di banalizzare. È vero, avrei potuto fare una domanda in tal senso all’autore e non l’ho fatto. Ti chiedo però come mai non l’hai fatta tu in qualità di intervistatrice. Forse perché non sei indipendente? A giudicare dalla tua lunga risposta sembrerebbe di sì (che non lo sei). Al posto tuo avrei lasciato che commentassero l’articolo direttamente o l’autore o il regista o gli attori. Tutti sono stati bravissimi, il che non toglie legittimità alle mie perplessità. A tutti cordiali saluti
Pasquale Episcopo
Premesso che ognuno ha diritto alle proprie opinioni, ritengo estremamente ingiusto “accusare” Simonetta di non essere indipendente nelle sue idee. È un modo provocatorio, utilizzato sempre più spesso nella stampa, per non affrontare il tema vero e per cercare di raccogliere consensi denigrando le altre persone che scrivono anziché discutendo le loro idee. Questo mi delude molto perché dimostra che l’internazionalità, la conoscenza di altre culture acquisita all’estero con tante esperienze e fatiche, a volte non è abbastanza.
Simonetta la domanda cui si riferisce lei l’ha fatta, non solo in teatro domenica scorsa, ma anche precedentemente alla prima di settembre e che è pubblicata sul libretto che si trovava all’ingresso della sala e su un articolo su rinascita flash di qualche mese fa, sul quale mi pare anche lei stesso scrive.
E onestamente non credo proprio che Simonetta, così come nessun altro, debba lasciare che siano altri a commentare ed esimersi dal farlo. Mi pare davvero inaccettabile, ancora una volta una provocazione.
Riguardo il resto, cioè il vero tema, io sono completamente d’accordo con Simonetta. La mia esperienza sul palco con un linguaggio così forte non è stata semplice. Ma non ero io a parlare e, come ho detto durante l’intervista (non so a questo punto se lei l’abbia ascoltata o sia andato via prima), questo è uno dei, per me, più interessanti risvolti del teatro: avere l’autorizzazione ad essere cattiva, avida, “morta de fame” e pure ignorante e volgare. Perché poi si può essere un’ubriacona pazza, una pettegola, un’assassina, ma non si può essere volgare?
Il politically correct non può essere applicato all’arte, perché è solo censura.
Riguardo la giornata della memoria, credo che sia difficile essere più chiari di come è stata Simonetta.
Non intendo proseguire nella polemica, ma di certo non accetterò che Simonetta, o nessun altro coinvolto nello spettacolo, venga offeso.
E infine voglio dirle che se questo pezzo teatrale ha provocato tutte queste riflessioni, allora deve aver colto nel segno.
Saluti e grazie per i complimenti, VF
Gentile Valentina,
meno male che alla fine ha menzionato i miei complimenti: nello scambio di impressioni avuto con Simonetta li ho fatti e ripetuti fin dalla prima mail.
Per piacere non ne facciamo un casus belli. Tanto più che l’articolo, critica compresa, rappresenta un riscontro, a mio avviso interessante, che dovrebbe farLe piacere e così a Simonetta, all’autore, al regista e agli altri attori. Cordialità, PE
Bene, ne prendo atto.
Saluti, VF