Leopardi e la donna che non si trova

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In Dialogo della Moda e della Morte, Giacomo Leopardi sostiene che la Moda — intesa come mentalità dominante — abbia «levata via quest’usanza di cercare l’immortalità» e abbia reso l’Ottocento «il secolo della morte». A fronte di un passato in cui l’illusione di poter raggiungere la pienezza dell’esistenza stava ancora in piedi, i limiti e le miserie della modernità si manifestano al poeta con evidenza crudele e disegnano un presente totalmente inospitale per la poesia. Inospitale perché, secondo Leopardi, nessuna forma autentica di poesia può sussistere al venir meno della domanda di infinito nascosta nel cuore di ogni uomo.  

Il presente, la poesia, la Bellezza

Particolarmente esplicito a questo proposito è il pensiero 2944 dello Zibaldone: «tutt’altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorché la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i costumi d’una generazione di uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà la patria l’amor patrio non esistono, l’amor vero è una fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte?».

Per Leopardi non può esistere una poesia senza passioni e senza illusioni. Questo perché, in definitiva, l’unico oggetto per cui vale la pena poetare è quel piacere infinito ed eterno attorno a cui passioni e illusioni si animano e da cui traggono sostanza. Si tratta della Bellezza nella sua accezione più alta. Una Bellezza che non gli si è mai manifestata ma in cui Leopardi non può smettere di credere perché la mancanza che ne sente è la prova inconfutabile della sua esistenza. Una Bellezza che lui continua a invocare, a dispetto dei dettami del pensiero dominante. Non è un caso dunque che circa un mese dopo aver scritto il pensiero 2944, Leopardi abbia composto l’inno Alla sua donna, dedicato a questa estrema «beltà» cantata nella sua assenza.  

La donna che non si trova

In Alla sua donna, l’infinito prende le sembianze della «donna che non si trova». La sua figura, avvolta dal mistero, si presenta subito nel solco della lontananza («Cara beltà che amore/lunge m’inspiri o nascondendo il viso»). Le ipotesi su dove possa essere si assommano. Forse questa donna appartiene al passato e ha allietato gli uomini nella famosa età dell’oro. Oppure è già tra la gente ma non si mostra. O magari apparirà in futuro e si prepara per chi verrà. 

Può anche darsi che semplicemente sdegni «esser vestita» di «sensibil forma» e «provar gli affanni» a cui è sottoposto un corpo mortale. O forse, come una dea, è da qualche parte nel cielo sconfinato, indifferente alla triste sorte dei mortali. Lontana e armata di una verità che non è disposta a condividere, come la luna cantata in altre celebri poesie leopardiane, nella cui distanza il poeta misura l’inesauribilità del suo desiderio e la profondità della sua malinconia.

L’inno disperato e il canto che resiste 

Il problema per Leopardi è sempre lo stesso: la limitatezza dell’uomo e l’illimitatezza del desiderio umano che spinge verso un altrove inaccessibile. E la protagonista in absentia di Alla sua donna si trova proprio lì, in quell’altrove, qualunque sia la sua dimensione spazio-temporale. Di conseguenza per il poeta, che l’ha tanto desiderata, non c’è speranza di incontrare la sua donna in vita («Viva mirarti omai/nulla spene m’avanza»). Al massimo potrà incontrarla al momento della morte, quando il suo spirito verrà «per novo calle a peregrina stanza». 

Ma pur nella constatazione dell’impossibilità di un lieto fine, il canto d’amore continua a innalzarsi. Resistente e coraggioso come la ginestra sulle pendici desertiche del Vesuvio. Testimone implacabile di un bisogno di pienezza, di una felicità imprendibile, che rende l’uomo più autenticamente uomo, immensamente fragile ma attraversato da una tensione che lo anima e lo proietta verso le stelle.  

Foto di Marcos Marcos Mark da Pixabay

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