L’età del ferro e l’età dell’oro secondo Esiodo

l'eta del ferro

In Le opere e i giorni il greco Esiodo introduce innanzi tutto il mito del vaso di Pandora. Il vaso era un dono fatto a Pandora da Zeus, il quale le aveva raccomandato di non aprirlo. Ma la ragazza, che aveva ricevuto da Ermes anche il dono della curiosità, finisce per scoperchiarlo e così libera tutti i mali del mondo. Da allora, dice Esiodo, «i mali infiniti errano in mezzo agli umani; piena, infatti, di mali è la terra, pieno ne è il mare, e le malattie, a loro piacere, si aggirano in silenzio di notte e di giorno fra gli uomini, portando dolore ai mortali». 

L’età del ferro

Esiodo narra questo mito consapevole di vivere nell’età del ferro, l’ultima della storia umana. In questa epoca i mali liberati da Pandora sembrano esprimersi al massimo nella vita degli uomini. «Mai io avrei voluto trovarmi ora con la quinta stirpe di uomini: ma o prima morire o nascere dopo» dice rammaricato l’autore. Questo perché nell’età del ferro dominano la violenza, l’invidia, la fatica, la prepotenza e l’ingiustizia. E la caratteristica umana che spicca di più è quell’orgogliosa tracotanza che in greco antico si esprimeva con il termine hybris. 

La hybris era considerata sgradita agli dei perché aveva il sapore della ribellione. Dice infatti Esiodo: «Sciagurati! ché degli dei non hanno timore. Questa stirpe non vorrà ricambiare gli alimenti ai vecchi genitori; il diritto per loro sarà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda le città». La frattura tra i figli e i padri è un chiaro segnale della discordia che caratterizza le società dell’età del ferro. Mentre tra i giusti «le donne generano figli simili ai padri», nel presente degli ingiusti «il padre non sarà simile ai suoi figli, né a lui i figli». Si parla di una diversità intesa come divisione e distanza, tutte parole che iniziano con di-, prefisso che rimanda al doppio, alla privazione e (aggiungendo la “s”) alla negazione.

L’età dell’oro

Addolorandosi per il destino di quei «miseri umani» di cui fa parte suo malgrado, Esiodo non può fare a meno di provare nostalgia per i (presunti) tempi andati. Ci racconta che prima di quella del ferro ci sono state altre quattro età: dell’oro, dell’argento, del bronzo e degli eroi. Tutte più giuste di quella presente, tra cui la migliore è stata certamente l’età dell’oro. Essa costituisce un mito che nasce dalla necessità umana di credere in un tempo in cui essere davvero felici era possibile. Il mito dell’età dell’oro appartiene — pur con le dovute varianti — a tutte le culture e a tutte le epoche. È il paradiso perduto di Adamo ed Eva nelle sue infinite declinazioni.

Nella narrazione di Esiodo, «l’aurea generazione di uomini mortali» si colloca «ai tempi di Crono, quando egli regnava sul cielo». L’autore scrive: «Gli uomini vivevano come dei, avendo il cuore tranquillo, liberi da fatiche e da sventure; né incombeva la miseranda vecchiaia, ma sempre, fiorenti di forza nelle mani e nei piedi, si rallegravano nei conviti, lungi dai tutti i malanni: e morivano come presi dal sonno». E aggiunge: «Tutti i beni eran per loro, la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti ed essi tranquilli e contenti si godevano i loro beni tra molte gioie».  

Il daimon

 Il fatto che gli uomini potessero godere dei frutti della terra senza coltivarla esclude la fatica dalla vita, e la forza e la gioventù perenni scongiurano malattie e vecchiaia. L’unica differenza con il paradiso terrestre cristiano e con altre versioni del mito dell’età dell’oro è il fatto che nell’età aurea di Esiodo si moriva. Ma era una morte dolce, solo corporea, che si sviluppava in una promozione dello spirito del defunto al grado di daimon. In Le opere e i giorni i daimones sono «spiriti venerabili sopra la terra, buoni, protettori dei mali, custodi degli uomini mortali».

Il tema del daimon ricorre spesso nelle opere letterarie e filosofiche greche e il termine conosce uno sviluppo di significato davvero sorprendente. Si pensi a Socrate che lo identifica come una specie di coscienza morale o a Eraclito che lo definisce «il carattere dell’uomo» nel senso di destino legato all’indole. Inoltre, dalla parola daimon viene la parola eudaimonia, ovvero felicità. Nell’ottica di Esiodo il legame del daimon con la felicità è evidente. Il daimon infatti è lo spirito lieto di un uomo che è stato felice e che dopo la morte del corpo è destinato a portare felicità («vestiti d’aria, si aggirano su tutta la terra, datori di ricchezze: essi ebbero questo onore regale»). Al contrario, le anime dei defunti dell’età del ferro sono indistintamente destinate al regno dell’Ade, oscuro e doloroso come la loro esistenza terrena.

Foto di Honey Kochchaphon kaensen da Pixabay

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