Fino al 27 gennaio è in scena al teatro Ghione di Roma L’idea di ucciderti scritto e diretto da Giancarlo Marinelli, con Fabio Sartor (foto sopra), Caterina Murino, Antonio Rampino, Maurizio Racanati, Francesca Annunziata e Paila Pavese.
Una donna uccisa; un sospettato; un pubblico ministero; un avvocato; una persona che verbalizza, un’altra che vigila; e madri che riempiono la vita dei protagonisti, come riempiono e massacrano il loro inconscio.
La storia si dipana nel dialogo, in un sovrapporsi di ruoli e di ragioni, di sentimenti, come un puzzle che lentamente prende vita, il puzzle di una litografia di Escher, però, dove convivono il tutto ed il suo contrario. Il pubblico viene catapultato in una situazione che inizialmente sembra chiara e, mano a mano, si mostra ambigua per tornare alla chiarezza: gli indizi, del resto, ci sono tutti per capire.
L’idea di ucciderti è un meraviglioso dramma contemporaneo; un thriller psicologico, forse, sebbene io sposterei il cursore dei fatti dalla psiche all’anima. È nell’anima che il dramma si forma, è da lì che cola, come lava incandescente, sui protagonisti e sul pubblico.
Storie, intrecci, verità che si moltiplicano, si uniscono e si disgiungono, irretiscono il pubblico in un moto pendolare sospeso tra ricordo e realtà, tra racconto e immaginazione; tra giustizia e ingiustizia; tra Bene e Male; tra amore e amore. Domina il dualismo, nei fatti come negli esseri umani; un dualismo che investe anche le splendide scene di Lisa De Benedittis. Come in un gioco di scatole cinesi aperte, i mondi rappresentati entrano ed escono costantemente, sotto lo sguardo vigile di una donna che emerge da una gigantografia sullo sfondo, il femminino sacro e quello profano; si muovono nell’essenzialità degli elementi scenici, fino a momenti di plasticità che ricordano raffigurazioni pittoriche. E c’è dualismo anche nei costumi di Teresa Acone, che accentuano la contrapposizione dei due poli toccati dall’invisibile pendolo dei fatti, passando dalla sfera del razionale, dominata da indumenti lineari e quasi monocromatici, alla sfera dell’emotività, dove la forgia sottolinea il non detto ed il colore lo amplifica, soprattutto il rosso, il colore del sangue, ma anche il colore della passione e del fuoco che consuma, il colore dell’inferno e del tramonto; il colore del cuore, perché il cuore è rosso anche quando si spezza.
Le luci di Luca Palmieri, poi, entrano in scena e recitano accanto ai protagonisti, seguendo anch’esse il passaggio dalla mente all’anima: massimo chiarore durante l’interrogatorio, dove domina la razionalità; penombra quando si scivola verso la paura, verso il dolore, verso un ricordo potente, impositivo, alla Pinter. Anche nelle luci il rosso è in primo piano; nel rosso il protagonista parla di sé, dei suoi ricordi; nel rosso si anima il suo dialogo con l’investigatore, o, forse, con una parte di sé. L’impermeabile stropicciato, il cappellaccio, la voce cavernosa dell’investigatore, infatti, fanno pensare all’Es freudiano, ad un inconscio crudo, brutale, alla personificazione dell’intuito che non lascia spazio ad illusioni.
Il moto pendolare tra gli opposti, però, è solo l’inizio, poiché il dualismo ben presto si moltiplica. Le verità diventano tante: temute, sospirate, rivelate, taciute in una complessa geometria di volti e maschere, di mondi esterni ed interiori. Un universo di indizi, ognuno dei quali è il testimone di una staffetta, passando da una storia all’altra. Gli attori stessi sono chiamati ad interpretare più ruoli. Lavoro impegnativo e perfettamente riuscito. Gli oggetti, persino gli oggetti, i più significativi, trasmigrano. La stola rossa, ad esempio, che racchiude sole e sangue, amore ed abbandono, vita e morte attraversa tutte le storie.
Da questa pièce, Giancarlo Marinelli esce come un artigiano, un intagliatore della realtà, che scruta in tutti suoi particolari, parcellizzandola in simboli dal preciso significato psicologico. In quest’opera si respira la vita in ogni aspetto, anche il più brutale, il più spaventoso, quello che rifiutiamo di aver percepito in noi, coacervo di sentimenti che riteniamo di non aver mai provato. Ma è così? Egli ci mette di fronte ad una necessaria riflessione che sgorga dagli eventi, anche quelli apparentemente più insignificanti, creando un intreccio degno di una tragedia greca. Eccezionale la sua capacità drammaturgica e splendida la regia. Non è una novità. La sua carriera è costellata di successi. Scrittore, regista, sceneggiatore, editorialista, drammaturgo e docente di regia teatrale, si muove con sorprendente destrezza nell’universo della creatività. Dalla sua penna è recentemente uscito Il silenzio di averti accanto, un romanzo che, nella migliore tradizione delle saghe familiari, dalla Ginzburg alla Morante, ripercorre la storia della sua famiglia.
Un testo, però, per quanto bello e profondo, lascia il segno, sul palcoscenico, solo se affidato a grandi interpreti. Fabio Sartor è un grande interprete, senza ombra di dubbio. Bravissimo attore di teatro, che ha lavorato con maestri come Strehler e Ronconi e che si è misurato anche con il cinema e la televisione, interpreta il protagonista, Luca Modin, il marito della vittima, il sospettato; ed è semplicemente strepitoso. Una recitazione realistica, emotiva e fisica al contempo, mossa da una metrica incalzante nella gestualità, negli spostamenti in scena, nelle pause. La sua interpretazione ha qualcosa di medianico: è un ponte tra essere e non essere. La sua voce segue eccessi e depressioni, segue il ritmo di “un cuore che si spezza”. È un uomo shakespeariano nel dramma che vive; un uomo pirandelliano per le tante ambiguità in cui è invischiato; un uomo kafkiano per il peso dell’ingiustizia e della giustizia che grava sulle sue spalle.
Modin, imprigionato nel disinganno di una vita che ha creduto felice e che si è rivelata un castello di carte spazzate via dall’intrigo e dall’adulterio, sembra quasi divertito dall’antipatia che desta, dall’aridità sentimentale che dimostra sin dall’inizio. Il destino, a volte, è un avversario invincibile e Modin lo sa bene; sa che sta attraversando l’inferno e che deve farlo da eroe e anti-eroe. In mezzo c’è tanta, tanta arte.
In lui ho visto un pezzetto dell’anima di Romeo Daddi, il protagonista del dramma pirandelliano Non si sa come; un’ombra del professore protagonista de La lezione di Ionesco; un ricordo dello sfortunato protagonista de La panne di Dürrentmatt. Uomini che nuotano nella tempesta dell’aggressività, dei rimorsi, dell’idea di uccidere.
Molto brava anche Caterina Murino, impegnata nel duplice difficile ruolo del magistrato e della donna uccisa. Nel ruolo della moglie è perfetta; in quello del pubblico ministero che interroga il sospettato cede forse un po’ troppo all’enfasi. Sono giornalista e scrittrice, ma anche avvocato penalista, una delle tante me con cui convivo. Ho, dunque, assistito a molti interrogatori. Di solito i pubblici ministeri, anche donne, non si lasciano facilmente intrappolare dalle parole dell’omicida, o del seviziatore; non stanno al suo gioco. Lei, invece, alza il tono della voce, le sue movenze sono nervose, le sue risposte indignate. A volte, sembra un po’ troppo influenzata dalle provocazioni del sospettato. È vero anche, però, che il personaggio della Murino entra nella storia con tutta la sua vita, con le sue fragilità di donna e di moglie, di figlia, con le sue debolezze, e tutto ciò è inevitabile che porti, nello svolgimento del suo lavoro, un importante coinvolgimento verbale, una certa concitazione gestuale.
Brava anche Paila Pavese, attrice e doppiatrice di chiara fama. Anche per lei sono qui previsti più ruoli, tutti materni, recitati in bilico tra una lucidità a volte spietata, ed una follia onirica, sospesa tra immaginazione e realtà, una realtà più folle della follia stessa.
Bravo Antonio Rampino, attore che ha interpretato ruoli teatrali e cinematografici di prestigio anche in produzioni straniere. Qui interpreta un mediocre avvocato incline alla malinconia e all’alcol. Buonissimi i passaggi recitativi tra un aspetto e l’altro della sua personalità: lo sciocco credulone, l’impaurito, l’avvocato che recupera un po’ di orgoglio professionale, il fallito, il prigioniero di un passato doloroso.
Altrettanto bravi Mauro Racanati e Francesca Annunziata. Il primo, giovane attore di talento, impegnato sia nel teatro che nel cinema e nella televisione, impersona il braccio armato della legge, una legge di cui arriva a dubitare e che stenterà a trovare in se stesso prima che negli altri. Ottima la sua performance, l’evoluzione dei suoi stati d’animo, la sua versatilità attoriale nei diversi ruoli che interpreta. La seconda, recita con grande intensità nella parte di una donna che, intenta a verbalizzare l’interrogatorio, esce lentamente dall’ombra, rivelando un bagaglio di doppiezze e disillusioni personali.
Di Ginevra, invece, la figlia di Modin, conosciamo solo il nome, un nome che compare anche ne Il silenzio di averti accanto, l’ultimo romanzo di Marinelli; un nome che ricorda una principessa, una sposa al fianco di Artù, ma anche una fedifraga al fianco di Lancillotto; un nome imprigionato nell’ambiguità esso stesso.
Bisogna far ridere il diavolo, afferma Modin; bisogna narrare la propria storia affinché qualcuno la ascolti. Nel vedere questa pièce, forse il diavolo ride; di certo, il pubblico ascolta. Non può farne a meno. Ascolta, introietta, si emoziona. E questo è il segreto del grande teatro.
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