«Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro» scrive Luigi Pirandello nel racconto Un «goj», tratto dalla raccolta Novelle per un anno (1922). Siamo nel Natale del 1918, la Prima Guerra Mondiale è finita da poco e il cristianissimo Pietro Ambrini — «uomo d’intransigentissimi principi clericali» — decide di organizzare una festa in grande stile in cui esibirà un presepe mastodontico. L’ipocrisia che si nasconde dietro al progetto trasuda da ogni frase del racconto.
Afferma la voce narrante: «Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno […] e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano far venire tutti quei pastorelli ch’eran di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi». Un’impresa d’artigianato lunga un mese, coronata da un eloquente Bambinello di cera che vorrebbe rappresentare Gesù ma che in realtà è solo un fantoccio svuotato dall’interno. E che dire del sughero, della paglia e della terracotta che dà forma ai pastori? Tutta materia morta, così compatta che nemmeno lo Spirito Santo riesce a penetrarla.
L’ipocrisia e la risata
A Pietro Ambrini però importa poco dello Spirito Santo. Il suo unico scopo è vedere la meraviglia sulle facce dei nipotini di ritorno dalla Santa Messa. E davanti al suo atteggiamento da “novello apostolo”, Daniele Catellani — il goj, nonché genero di Ambrini — ride senza riuscire a fermarsi. Ride di tutti quelli che si dicono cristiani anche dopo aver promosso anni di guerra sanguinosissima. Ma soprattutto ride della sua condizione incontrovertibile di straniero. Non è più ebreo (goj infatti è un’espressione che gli ebrei usano per indicare i non ebrei) da quando per sposare una Ambrini ha rinunciato alla sua fede e rinnegato il suo primo cognome (Levi). Ma non è nemmeno cristiano perché le origini giudaiche persistono nei suoi lineamenti.
«Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni […] se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola. Ma sì. via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri […]. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida […] in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei».
Lo scherzo e la caduta della maschera
Catellani è il classico personaggio Pirandelliano che coglie la natura fantoccesca dell’esistenza. Ne percepisce il dolore e se ne difende attraverso una «risata senza gusto». La risata irritante è l’unico modo che il goj ha per esprimere l’amara consapevolezza di aver rinunciato alla propria identità per diventare vittima della persecuzione messa in atto da un uomo che nei fatti è meno cristiano di lui. Fino al Natale del 1918 ridere resta la sua unica modesta forma di ribellione. Davanti all’enorme presepe però gli scatta dentro la voglia di agire. Decide di rispondere alla sorpresa del suocero con una vendetta travestita da burla. In questo modo spera finalmente di strappare dalla faccia di Ambrini la maschera del falso Credo.
La notte di Natale, mentre tutti sono alla messa, Catellani entra «tutto fremente d’una gioja quasi pazzesca» nella stanza del presepe. Toglie via tutti i pastorelli, gli animali e i Magi. Al loro posto mette eserciti di soldatini di stagno e piccoli cannoni tutti puntati contro la grotta di Betlemme. «Lascio immaginare a voi come rise […] quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle».
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