Si parla tanto di bandiere perdute, specie nel mondo del calcio. Atleti che rinunciano ad ambienti che li hanno cresciuti e coccolati, cedendo al richiamo di sonanti quattrini.
È un processo già radicato nel mondo sportivo che vede i casi più chiacchierati proprio nelle attività con maggiore risonanza mediatica. Nessuno si stupisce più se un Ibrahimovic si “diverte” a saltare da una parte all’altra dell’Europa alla ricerca del migliore offerente per le sue prestazioni; oppure se un qualsiasi giocatore di basket, in NBA soprattutto, lascia una franchigia approdando ad una diretta concorrente per il titolo. Si è perso il senso di appartenenza ad una realtà cittadina.
Il freddo richiamo dei soldi raggela sempre più il calore trasmesso da una piazza che si porta a cuore un campione ben oltre i suoi meriti sportivi. Cadremmo nel qualunquismo ponendo questo pensiero come consuetudine, ma è pur vero che i fatti a testimonianza di questo sono sempre più frequenti. Si fa presto allora a lodare le “bandiere”: quelle persone che, in totale controtendenza con quanto detto, si ergono a simboli di realtà sportive che le vedranno incise a fuoco nella loro storia. Se una città può ospitare queste figure, diverso è il discorso di interi paesi. È recente infatti la prassi di abbandonare la propria nazione di origine per vestire la maglia di un altro stato.
Il cosiddetto “oriundo” scavalca barriere generazionali pur di praticare la propria professione, anche a costo di tradire le sue discendenze. Di contro è altresì vero che una nuova pratica stia invadendo il panorama sportivo mondiale: la rinuncia a rappresentare il proprio paese dedicando la carriera a se stessi e ai soli guadagni. Ultimo esempio è dato dai campioni spagnoli di Coppa Davis i quali hanno annunciato, subito dopo la finale vinta, che non parteciperanno alla manifestazione del prossimo anno.
Altri tantissimi casi riguardano calciatori che abbandonano le nazionali pur restando attivi nei club; la Aguero che lasciò due anni fa l’italvolley; Seppi rinunciatario anch’egli alla Davis e chissà quanti altri atleti in tutto il mondo. Non si tratta più solo di tradire una città o una regione; non ci si limita ad abbandonare una “famiglia” per maturare o evolversi tecnicamente.
Si rinuncia alla propria terra, all’orgoglio di essere ambasciatori di uno stato intero senza avere sonanti ritorni economici. Ci si attacca ad un osso da spolpare quando si è già mangiato un grosso cosciotto che lo ricopriva. La fame di soldi sembra non avere più confini e anche un mondo così patriottico, come era una volta lo sport, abbassa il suo livello morale in maniera drastica, senza rispetto e senza vergogna alcuna.
Daniele Conti
foto: qnm.it
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