Se vi capiterà di assistere dal vivo o di vedere in riproduzione televisive alcune opere famose, potreste rimanere perplessi e delusi dal fatto che su tutto, esecuzione musicale, valore dei cantanti, interpretazione dello spartito, recitazione, prevalgano in modo eclatante e sfacciato la regia e la scenografia. E dicendo “sfacciato” si allude alle realizzazioni spregiudicate, provocatorie al limite dell’assurdo e del ridanciano.
Per fare esempi concreti: potreste vedere un Otello ambientato in un manicomio, un Macbeth verdiano in chiave nazifascista, un Trovatore …
Un Trovatore moderno?
Una rappresentazione di quest’ultimo è stata così estrema che merita qualche parola in più.
La scena è ambientata, per tutti i tre atti, in una stanza grigia e vuota, aperta sui fianchi da due porticine basse e strette dalle quali entrano ed escono i protagonisti, i coristi, le comparse, i ballerini, costretti ad abbassarsi o stringersi per passare. Sono vestiti quasi tutti con abiti neri vagamente circensi e portano cappelli cornuti a copertura di volti mascherati. I ballerini eseguono una figurazione più che una danza, indossano un succinto costume da pugile con tanto di guantoni.
Mentre lo spettacolo svolge i suoi temi passionali e sanguinosi, passano sul palcoscenico alcuni bimbi che giocano, una signora che spinge una carrozzina e al centro sta seduto un signore di mezza età che legge un giornale e si mostra del tutto disinteressato a quel che gli accade intorno.
Nulla contro le versioni in chiave moderna, se valgano a rendere l’opera più vicina alla nostra comprensione e ne rivelino l’attualità, ma ci sono scelte che hanno ben altro spirito e soggiacciono ad altre esigenze.
Ma perchè?
Qual è lo spirito? È il disprezzo dell’opera come genere ormai desueto.
Qual è l’esigenza?
Suscitare curiosità e sorpresa per battere cassa.
Si tratta di supplire ad una decadenza della popolarità della lirica.
Non l’amano i giovani che gremiscono gli stadi per una rock band.
Non la seguono i pochi appassionati perché i prezzi del teatro d’opera sono proibitivi.
Non vi si dedicano i possibili interpreti italiani, tanto che i cartelloni sono pieni di nomi russi, rumeni, coreani e cinesi.
Non è caduto l’interesse da parte di degni esponenti del settore che però aspettano le sovvenzioni pubbliche, le campagne abbonamenti, gli eventi collegati e sopportano le invenzioni dei registi.
Alle fantasie dello scenografo del Trovatore prima citato (un tale Wilson), uomini come Muti e Karajan non si sarebbero piegati mai; gli altri non sono deboli o correi ma si limitano, forse, a fare un bilancio fra rischio del ridicolo e sopravvivenza di un genere musicale che ha segnato fortune e successi.
Ogni forma d’arte ha le sue mode
Il dramma in musica, nato dal recitar cantando di Monteverdi, è giunto ai trionfi dell’ottocento e della prima metà del secolo scorso nonostante l’intrinseca difficoltà della formula.
Perché, effettivamente, render credibile che un moribondo vocalizzi per un quarto d’ora, o che un sicario si nasconda dietro un albero di cartone, o che quattro, sei, otto personaggi intreccino una contrappuntistica armonia seguendo ciascuno un suo personale percorso nella storia che va narrando non è cosa facile.
Sui finali d’atti concertati a più voci il grande Da Ponte ha scritto (come critico, non come autore) una pagina memorabile e irresistibile, nella quale ironizza sulle acrobazie del compositore e l’incomprensibilità del testo teatrale.
Pochi sommi compositori hanno firmato opere di insperato equilibrio fra musica e scena ma alcuni loro capolavori rappresentano la classica miracolosa eccezione che conferma l’amara regola.
Opere come “La Traviata”, “Rigoletto”, “Don Giovanni”, “Il barbiere di Siviglia” non sono la prova della vitalità d’un genere ma della potenza del genio.
Eppure…
Ma c’è una bellezza della musica che ancora convince e richiama e che gli imprenditori teatrali cercano di salvare e proporre con vari escamotages.
Il più ricorrente è il concerto d’arie d’opera che riscuote ancora successo
Pavarotti a Pechino ha fatto venir giù il teatro.
Un’altra forma è quella dell’esecuzione in forma di concerto o d’oratorio, ma è troppo pesante anche per il gusto dei melomani
Una formula originale e molto interessante è quella adottata da una scuola di canto romana (A.Mu.R.): portare in scena (che poi scena non è) l’opera ridotta ai momenti essenziali, eliminando quasi del tutto i recitativi, o sostituendo l’orchestra con un ridotto complesso o meglio ancora con un piano accompagnatore, riempiendo i vuoti con un racconto parlato.
Non ne soffre la cultura anzi, per certi aspetti ne guadagna.
In fondo questi geniali piccoli complessi hanno riesumato in qualche modo il Mozartiano Singspiel, quel misto di recitazione e arie che rispettava la normale drammaturgia e l’arricchiva di inserti musicali.
Tali sono “Il ratto del serraglio” e “Il flauto magico”.
Il genere non ha avuto (a parte l’esperienza mozartiana) gran fortuna ma è approdato all’operetta e di lì al “Musical “creandosi un grande spazio recettivo.
Registi e scenografi, perché non imitate gli originali esecutori di cui abbiamo parlato? Perché non provate ad innovare senza tradire?
Da un’idea possono nascere altre idee.
Non saranno perfettamente filologiche ma nemmeno i concerti d’arie d’opera o l’esecuzione in forma d’oratorio sono filologici. Però non sono pagliacciate.
Foto di TravelCoffeeBook da Pixabay
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