Lorenzino de’ Medici, invidioso per la preminente posizione politica concessa al cugino Alessandro, figlio di papa Clemente VII, sembra circondare di affetto quel suo parente poco incline a dividere il potere di duca di Firenze. Il suo affetto, però, sa di veleno. E’, infatti, il mezzo per non destare sospetti prima del progettato, brutale omicidio del duca; assassinio che, tuttavia, invece di donare a Lorenzino l’ambito scettro di Firenze, lo ripagherà con la sua stessa moneta insanguinata.
La vergogna fiorentina
Papa Clemente VII, figlio naturale di Giuliano de’ Medici, l’amato e compianto fratello di Lorenzo il Magnifico, siede sul trono di S. Pietro solo per undici anni, ma per la loro complessità devono sembrargli cento. Deve fronteggiare, infatti, alcune tra le più difficili questioni sia religiose, sia politiche: il pericoloso giuoco di alleanze ed inimicizie con Francesco I e Carlo V; il sacco di Roma e la sua prigionia; la questione turca; la pace religiosa di Norimberga e lo scisma inglese di Enrico VIII. Fondamentali, per lui, gli interessi del papato, ovviamente, ma anche quelli della casa medicea, tanto che, pur nella turbolenza di quei tempi, riesce, infine, a stringere le giuste alleanze: suo figlio, Alessandro de’ Medici, insignito, per suo stesso volere, della carica di duca di Firenze, impalma Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V; Caterina de’ Medici, invece, bisnipote del Magnifico, va in isposa ad Enrico II di Francia.
Alessandro, tuttavia, non si rivela all’altezza del compito affidatogli dal padre e trasforma Firenze nella sede di smodati piaceri e prevaricazioni d’ogni sorta, oltre che in un campo militare. Per il suo esercito di mercenari costruisce una guarnigione poderosa, la Fortezza da Basso, affidando il progetto ad Antonio da Sangallo, dopo il rifiuto – così si dice – di Michelagnolo Buonarroti.
Come sempre, neppure i malvagi sono solo malvagi, però. Alessandro, spesso, fa “giustizia a tutti, al piccolo come al grande”, scrive Bernardo Segni, e tutela la parte più umile del popolo con leggi di grande valore, come quella che sancisce l’uso del volgare nella redazione dei contratti. Ciononostante i fiorentini non lo amano. Si comporta poco da duca e molto da tiranno. Il suo governo è noto alla Storia come la “vergogna di Firenze”. Così ne parla anche il Buonarroti: “Grato m’è ‘l sonno e più l’esser di sasso, mentre che il danno e la vergogna dura”. I fuoriusciti repubblicani lo portano addirittura dinanzi al tribunale di Carlo V, accusandolo d’ogni nefandezza, ma l’unione con Margherita d’Austria è, a quel tempo, già cosa fatta e Carlo V poco vuole fare contro il futuro genero.
Ovviamente la nomina di Alessandro a duca di Firenze aveva tarpato le ali ai progetti di almeno altri due Medici, che aspiravano al governo della città: Ippolito, nipote del Magnifico, il quale viene costretto a farsi cardinale, vivendo la porpora come una prigione per il resto dei suoi giorni; e Lorenzino, di un altro ramo della famiglia, allevato da Giovanni delle Bande Nere, figlio di Caterina Sforza, ed, in sua assenza, dal cardinale Silvio Passerini.
Storia di un’amicizia
Lorenzino nasce nel 1514. Il padre, Pier Francesco de’ Medici, aveva lasciato ai figli un’eredità costituita essenzialmente da debiti ed i tutori di Lorenzino avevano fatto di tutto per allevarlo al meglio, sebbene, inevitabilmente, con le dovute ristrettezze, la qual cosa, se gli aveva causato una congenita invidia nei confronti di coloro che potevano permettersi una vita agiata, aveva favorito anche un’inestinguibile sete di affermarsi con le proprie forze, studiando molto e dedicandosi con apprezzabile estro alla scrittura. “Piuttosto graziato che bello”, come lo descrive un cronista del tempo, si distingue per il difficile carattere: è turbolento ed invidioso, collerico, vendicativo, eppure, a volte, malinconico, taciturno. La sua ambivalenza è perfetta per trarre in inganno i nemici, conquistandone la fiducia come insegna il Machiavelli, del quale Lorenzino è appassionato lettore.
Durante i primi tempi del ducato di Alessandro, Lorenzino si reca a Roma, sotto la protezione del Papa e sotto la tutela di uno zio acquisito, Filippo Strozzi, fervido nemico del duca in carica. La Città Eterna non smussa le spigolosità di Lorenzino. Si lamenta dell’avarizia del Papa e della ricchezza del cardinale Ippolito; ha in odio i ricchi romani, tanto che aggredire Roma, forse, gli sembra un giusto contrappasso. E’ così che, in preda ai fumi dell’alcol, una sera mozza e ruba le teste marmoree dei re barbari, da poco restaurate e poste nei pressi dell’arco di Costantino. Un simile gesto provoca scalpore. Si tratta di lesa maestà.
Troppo furbo per essere colto sul fatto, si ritira nell’ombra, lasciando che l’accusa, per la quale era prevista la pena di morte, fosse avanzata contro ignoti. Ben presto, però, spuntano voci, sempre più insistenti, che attribuiscono a lui quel crimine. La condanna non si fa attendere, sebbene la pena capitale venga commutata in bando a vita. Del resto, come avrebbe potuto, il Papa, lasciare che cadesse una testa medicea?
Il ritorno a Firenze non è dei migliori, vista l’eco delle sue malefatte, ma Lorenzino, abile mentitore, riesce ad ingraziarsi il duca Alessandro, fingendosi suo amico ed assumendo il ruolo di consigliere. Lo segue ovunque, anche a Roma, dove torna a testa alta, sfidando gli ostili che lo avevano bandito.
Disegno criminoso
La Firenze cinquecentesca ama il mondo dell’occulto e gli astrologi hanno un gran daffare. Un sensitivo mette in guardia il duca da “un piccolo uomo dal viso ferreo, suo amico, molto taciturno e poco socievole”. In pratica, il ritratto di Lorenzino. Un altro afferma d’aver sognato quest’ultimo che uccideva il duca. Alessandro non se ne preoccupa. Si fida molto di Lorenzino, di cui apprezza l’amicizia, i consigli politici, ma anche l’affilata arguzia, i celebri lazzi che lo divertono tanto. L’orafo Benvenuto Cellini ne riporta uno nelle sue memorie. Mentre stava lavorando ad una medaglia celebrativa per il duca, si rivolse a Lorenzino: “Messer Lorenzo mi darà un bellissimo rovescio”, riferendosi al fatto che sul rovescio delle medaglie venivano spesso raffigurati simboli o frasi ideate da eruditi umanisti. “Io non pensavo ad altro, se non a darti un rovescio che fussi degno di Sua Eccellenza”, replicò prontamente Lorenzino all’indirizzo di Cellini, facendo ridere il duca a crepapelle. Ma tra il riso ed il pianto, a volte, non c’è che un attimo, il tempo di un più profondo singulto. Ne sa qualcosa il duca Alessandro, al quale, poco dopo, la pelle fu crepata per davvero.
L’occasione per l’omicidio nasce dallo smodato appetito sessuale di Alessandro. Lorenzino ha una zia, Caterina, ed una sorella, Laudomia, molto avvenenti e molto oneste, un congiunzione di virtù che fa sempre gola al depravato. Ebbene, Lorenzino promette ad Alessandro di fargli trovare nel proprio letto una delle due, presumibilmente Laudomia. E’ la notte dell’Epifania del 1537. Firenze è nel pieno dei festeggiamenti. Le strade sono affollate di gente mascherata e gaudente. Alessandro, dopo aver cenato con la sua sposa, si mischia alla folla in festa e raggiunge casa di Lorenzino, infilandosi nel letto ed attendendo che fosse introdotta la fanciulla da sedurre. Tuttavia, vino e stanchezza appesantiscono le sue palpebre, nell’attesa, e Lorenzino ne approfitta per entrare di soppiatto e legare la cintura della spada di Alessandro all’elsa, in modo che non possa essere sguainata. Quindi lo trafigge più e più volte, con la complicità di un suo fedele sgherro, tal Scoroconcolo, che lo finisce con un fendente al collo.
Il corpo ed il volto del duca è sì devastato dalle ferite da non poter essere esposto. Il biglietto che Lorenzino lascia sul lenzuolo che copre la salma descrive il suo movente: vincit amor patriae, laudunque immensa cupido (vince l’amor di patria ed un’immensa brama di gloria).
Via da Firenze con la Morte alle calcagna
La fuga da Firenze è inevitabile, per i due assassini. A Venezia li accoglie Filippo Strozzi, che nel frattempo aveva lasciato Roma.
Firenze passa nelle mani di un altro Medici, Cosimo, figlio di Giovanni delle Bande Nere, cresciuto con Lorenzino come fossero fratelli più che cugini. Questi, dimentico d’ogni vincolo parentale e d’ogni ricordo d’infanzia, requisisce sia i beni di Alessandro che di Lorenzino, saccheggiando le loro abitazioni, cosa che la dice lunga sulla sua natura. Viene in mente un motto popolare che parla di padelle e di braci.
Entusiasta per quell’omicidio che, agli occhi degli esuli fiorentini non è altro che un gesto eroico, Lorenzino volge lo sguardo verso altre azioni temerarie che lo portano da Costantinopoli alla Francia, ma è presto costretto a tornare a Venezia per potersi guardare meglio le spalle a causa dei sicari che lo stanno cercando. Suo cugino Cosimo, infatti, temendo la popolarità di Lorenzino, ha, nel frattempo, messo una taglia sulla sua testa. Quest’ultimo attinge la replica dalla sua arte, scrivendo l’Apologia, dove dichiara che l’uccisione del tiranno è sempre un’uccisione giusta.
Non resiste a lungo, però. E’ il 26 febbraio 1548 quando Cecchino da Bibbona e Bebo da Volterra lo aggrediscono in istrada. Alessandro Soderini, che camminava accanto a lui, viene ferito ma riesce a fuggire. La vendetta si abbatte su Lorenzino con un aspro contrappasso: vittima di lame affilate, viene lasciato in terra nelle stesse condizioni in cui egli aveva lasciato Alessandro sul letto di morte. Sembra proprio il caso di dire “chi di spada ferisce …”.
Poche le voci che lo piangono, tra queste quella di monsignor della Casa il quale così scrive al cardinale Farnese: “A tutta la terra incresce la morte di messer Lorenzo, che era tenuto persona di buono intelletto, e di gran valore”. Non sono parole, però, capaci di scrivere la Storia, spesso narrata dalle voci dei potenti. Di Lorenzino, infatti, si tramandano quasi solo le malefatte. In un proverbio toscano si dice che non lo volle né Dio né il diavolo. Se così è, c’è da chiedersi dove stia facendo ora le sue temerarie scorribande o dove stia leggendo i suoi amati libri.
di Raffaella Bonsignori
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