Con il passaggio dalla cultura medievale a quella umanistica il tema della dignità dell’uomo emerge come una questione fondamentale e su cui vale la pena spendere fiumi d’inchiostro. Nel Medioevo l’essere umano poteva essere concepito esclusivamente in rapporto con Dio, pertanto si parla di concezione del mondo di tipo teocentrico. Nel Quattrocento, con l’Umanesimo, sale alla ribalta una visione antropocentrica che pone al centro della realtà l’uomo come individuo intelligente, libero e capace di dominare la realtà esterna, di creare cose belle e di determinare da solo il proprio destino.
Questa concezione più laica della dignità umana — unita a una profonda fascinazione per la cultura classica — non implica affatto un rifiuto della religiosità cristiana. Siamo in un’epoca ancora profondamente cristiana, solo che la vita terrena non viene più valutata soltanto alla luce del suo fine celeste. Adesso si afferma anche il valore autonomo della realtà mondana, che va goduta in tutte le sue bellezze e le sue innumerevoli possibilità. La celebrazione dell’individualità umana è uno dei punti fondamentali in cui la mentalità umanistica più si accorda a quella degli antichi. Non a caso esiste una locuzione latina (attribuita a Appio Claudio Cieco) che recita homo faber suae fortunae, ovvero l’uomo artefice della propria sorte.
I piaceri della vita e l’esaltazione del corpo umano di Giannozzo Manetti
Anche se gli umanisti concordano tutti sul rilancio della dignità umana, il tema viene trattato con sfumature diverse dai vari autori. In De dignitate et excellentia hominis di Manetti si assiste a un rovesciamento radicale della visione medievale della vita terrena. In polemica con quanto affermato da Innocenzo III nel De contemptu mundi («intitolato alla miseria umana»), Manetti esalta il valore della vita terrena e del corpo. Afferma che «il corpo umano […] pur non avendo in comune la materia con nessuno degli […] animali terrestri, risulta superiore, e la stessa superiorità deve ammettersi anche a proposito degli animali dell’aria e dell’acqua, essendo stato fatto per propria natura in modo che, senza il peccato, non sarebbe mai perito».
Il corpo umano è destinato all’eternità, dunque è perfetto. E anche la realtà in cui è inserito è positiva in quanto «in questa nostra vita quotidiana possediamo molti più piaceri che non molestie». Tuttavia, dice Manetti, per vivere bene bisogna condurre una vita attiva e operosa. È necessario esercitare la virtù («sempre lieti e alacri bene operando») in modo da «godere poi eternamente della divina Trinità, da cui son venute tutte quelle doti». Possiamo quindi osservare che nella lode al corpo e ai piaceri terreni non si abbandona mai la prospettiva dell’eterno.
L’uomo e la libertà di autodeterminazione secondo Pico della Mirandola
La stessa centralità dell’uomo nel mondo coniugata con la fede si ritrova nell’opera che rappresenta il manifesto più compiuto degli ideali dell’Umanesimo: De hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola. Dio è sempre riconosciuto come il grande Artefice, colui che ha creato tutte le cose. Ed è proprio Lui che al termine della Creazione ha messo l’uomo sulla terra perché «comprendesse la ragione, amasse la bellezza e ammirasse la grandiosità di un’opera tanto meravigliosa». Ma non potendo dare all’uomo una caratteristica che fosse sua e di nessun’altra creatura (le virtù fisiche e intellettive erano già state spartite tra creature terrestri e creature celesti), gli dà «tutto quello che di particolare era stato attribuito alle altre creature». Praticamente lo rende la sintesi di tutte le qualità materiali e spirituali esistenti.
L’uomo dunque è un’ «opera di natura non definita». Il fatto che il suo comportamento non sia determinato dalla natura lo rende libero di decidere della propria sorte. La vera virtù che contraddistingue l’uomo per Pico della Mirandola è infatti la libertà di autodeterminazione. Per volontà di Dio stesso l’essere umano può avere ciò che desidera e essere ciò che vuole. Questo comporta anche una grande responsabilità poiché «Dio pose i semi di ogni specie e i germi di ogni vita: a seconda di come ciascuno li coltiverà, questi si svilupperanno e produrranno in lui i loro frutti». Sta all’individuo scegliere se elevarsi verso la perfezione divina o vivere come i bruti.
Marsilio Ficino e il secondo dio
Se le interpretazioni della dignità dell’uomo di Manetti e Pico della Mirandola si pongono in continuità l’una dell’altra, quella espressa da Marsilio Ficino nella sua Theologia platonica per certi aspetti risulta divergente. Manetti e Pico della Mirandola, pur celebrando l’uomo, lo concepivano sempre in posizione nettamente subalterna rispetto a Dio. Ficino invece mette l’uomo al di sopra della natura e quasi sullo stesso piano con Dio. Dice che la natura umana è «simile alla natura divina» e che l’uomo «è l’unico vivente che ha origine dal cielo».
Addirittura afferma che l’essere umano «è in certo senso un dio». Questo perché è inventore di «innumerevoli arti», sa coltivare e costruire cose bellissime, «perfeziona, corregge, ed emenda le opere della natura inferiore». Ma soprattutto è capace di governare e dominare gli altri esseri viventi in quanto «sua è l’universale provvidenza di Dio, che è causa universale». Con Ficino si giunge al culmine della fiducia nelle possibilità umane. L’uomo risulta come un secondo dio. La prospettiva religiosa è ancora dominante, ma l’autore non si esime dal toccare anche la sfera della magia. Questo anche perché l’uomo è destinato alla penetrazione (e quindi alla conquista) completa della natura, e per raggiungere questo fine tutte le strade sono percorribili.
Foto di Вера Мошегова da Pixabay
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