La Basilica di Santa Chiara è un edificio di culto monumentale di Napoli, tra i più importanti e grandi complessi monastici della città. La basilica ha ingresso nella Via Benedetto Croce, sul lato della Piazza Gesù Nuovo, di fronte all’omonima chiesa ed adiacente a quella delle Clarisse (un tempo – anch’essa – annessa al complesso monastico di Santa Chiara).
È la più grande basilica gotica di Napoli, voluta da Roberto d’Angiò e dalla moglie Sancha di Maiorca; costruita tra il 1310 e il 1328, è stata aperta al culto nel 1330 (con consacrazione e dedicazione a Santa Chiara avvenuta solo nel 1340).
Il Monastero di Santa Chiara, tra i più grandi della città, è alle spalle della basilica; ospita al suo interno l’omonimo museo dell’Opera e una vasta area archeologica di epoca romana; inoltre, è caratterizzato da quattro chiostri monumentali, da una grande biblioteca (con 50.000 volumi, un’importante sezione dedicata alla storia e cultura francescana, e circa 40 codici del Cinquecento e Seicento), diverse sale conventuali (tra cui un refettorio, la Sala di Maria Cristina, la Sala Capitolare e le cucine) e dalla Chiesa delle Clarisse (ex refettorio dei Frati Minori), il cui ingresso autonomo è sua Piazza del Gesù Nuovo.
La canzone (scritta nel 1945 da Michele Galdieri e Alberto Barberis) testimonia lo sgomento del popolo napoletano per la notizia della distruzione della Chiesa per i bombardamenti del 5 agosto 1943, ad opera degli angloamericani, che causarono gravissimi danni alla Chiesa. L’incendio durò circa diciotto ore, provocando il crollo delle capriate della copertura e la decomposizione dei marmi, delle preziose sculture e degli affreschi interni. Solo il chiostro contiguo alla Chiesa restò miracolosamente integro. La Chiesa di Santa Chiara venne sventrata dai bombardamenti “alleati”, a causa dei quali si persero definitivamente alcune impareggiabili testimonianze artistiche (ori e stucchi descritti dal Galante, le grandi tele con le Storie di Santa Chiara dipinte da De Mura); si perse anche ogni speranza di risolvere uno dei misteri del Giotto “napoletano”, coperto nel ’700, epoca in cui la “moda” richiedeva una chiesa più sontuosa rispetto all’austerità francescana trecentesca.
La disperazione dell’intera città – per quello che il quotidiano “Il Mattino” definì “Assassinio di popolo” – è ben rappresentata nei versi della canzone, ‘affidati’ ad un emigrante che dà voce al suo desiderio di tornare a Napoli, ma contrastato dall’angoscia di trovare la sua città distrutta dalla ferocia della guerra. Un’angoscia dell’Italia intera – alle prese con la ricostruzione – che per la canzone dedicata al Monastero di Santa Chiara ne fa «quasi un inno nazionale» (così Gino Castaldo, in Dizionario della Canzone Italiana).
I lavori di restauro – molto discussi – si concentrarono sull’architettura medievale rimasta intatta ai bombardamenti, riportando la basilica all’aspetto originario trecentesco e omettendo in questo modo il ripristino delle aggiunte settecentesche; e terminarono definitivamente nel 1953, così che la chiesa fu riaperta al pubblico.
Il ‘protagonista’ della canzone è combattuto tra il desiderio di tornare a Napoli e la paura di trovarla cambiata (per costumi e tradizioni); un riferimento sicuro resta la Fontana di Capodimonte (una delle fontane storiche di Napoli), così chiamata per la sua pianta ovale. Costruita in occasione della sistemazione della zona (tra il 1832 e il 1836), era utilizzata per abbeverare i cavalli dei viandanti che, provenendo dalla salita di Via Santa Teresa e del Corso Amedeo di Savoia, dovevano proseguire il cammino sulla più ripida e tortuosa Via Capodimonte.
Munasterio ‘e Santa Chiara, Michele Galdieri / Alberto Barberis, interpreti vari, 1945, La Canzonetta
Fonte foto: it.wikipedia.org
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