Magda Szabò: la porta

La più grande scrittrice ungherese degli ultimi anni ci ha lasciato una produzione vastissima ma è solo dal 1959 che i suoi scritti hanno iniziato ad attraversare i severi confini del paese grazie all’interessamento di Herman Hesse e di un’amica comune che gli fece avere clandestinamente alcune delle sue opere. È in questo modo che nel 1989 venne finalmente tradotto e pubblicato anche in Italia La porta.

La scrittrice amava dire che non era lei a cercare le sue storie ma erano loro a bussare alla sua porta, e forse fu proprio così per lo straordinario personaggio di Emerenc: la domestica che la accompagnò nei suoi anni a Budapest, durante Repubblica sovietica d’Ungheria e la rivolta che tentò di travolgerla.

Nel libro la storia delle due donne e del loro passato si intreccia alla storia dell’Ungheria, l’io narrante è fortemente autobiografico, seppure non ne venga mai chiaramente rivelato il nome o la sua sostanza empirica di “autore”: gli anni del primo approccio con Emerenc sono gli anni bui del silenzio, quelli in cui il regime mette a tacere qualsiasi voce contrastante. La scrittrice è in casa ma non muta, non rinuncia a scrivere né a battere sui tasti della sua macchina per giornate intere, questo la spinge a cercare una domestica, ma non è lei a trovare Emerenc: è Emerenc a scegliere lei.

Era alta, ossuta, possente nonostante l’anzianità, non era grassa ma muscolosa, emanava una sensazione di forza, sembrava una valchiria, e il fazzoletto in testa aveva l’aspetto di un elmo guerriero.” È cosi che la scrittrice descrive Emerenc al loro primo incontro, questo aspetto imperioso non farà altro che confermarsi attraverso il resto delle vicende descritte nel libro espandendosi anche alla sua personalità. Lentamente e inesorabilmente iniziamo a conoscere Emerenc, le sue idee su Dio e sulla chiesa, il suo disprezzo per gli intellettuali considerati nullafacenti, il suo sdegno nei confronti del potere “in quanto tale, in qualunque mano fosse riposto, se mai fosse comparso un uomo capace di risolvere i problemi dei cinque continenti Emerenc si sarebbe comunque schierata contro di lui, semplicemente perché aveva trionfato”.

La lotta di Emerenc, muta, cruda ma senza scampo è la lotta contro qualsiasi forma di convenzione, la lotta contro ciò che non si può vedere ivi compresi i sentimenti, a favore di tutto ciò che si può toccare, maneggiare, fare: non smette un attimo in nessun giorno dell’anno di pulire, sistemare, operare. La sua logica è tagliente proprio perché pratica e in quanto tale inconfutabile: affonda negli atteggiamenti degli altri con la precisione di un bisturi svelando ciò che era sotto gli occhi di tutti ma non poteva o voleva esser osservato. La donna degli istinti si fa strada nella casa e nella vita della donna di cultura, ne detta le regole, ne impone le condizioni quasi a confermarci quell’antica idea dell’intellettuale “tra le nuvole”, incapace infine di gestire la sua vita materiale e sé stesso.

La scrittura si attorciglia sempre più fittamente attorno al personaggio di Emerenc, ogni altra comparsa ruota attorno ad esso, ogni avvenimento è una tessera del complicato mosaico che esso rappresenta. Attraverso aneddoti e salti temporali la Szabò ricostruisce sulle pagine un quadro umano entusiasmante nella sua complessità e vorticante attorno all’inevitabile epilogo finale, fino all’apertura della porta che Emerenc tiene sbarrata tra sé e il mondo, fino alla caduta della maschera pirandelliana che essa ha costruito attorno alla sua persona: così la porta viene aperta ed Emerenc viene vista senza il suo elmo, il suo fazzoletto in testa.

Non può esserci vita dignitosa per un personaggio senza maschera, Emerenc se ne andrà con un doloroso insegnamento per la scrittrice sui limiti dell’amore:

“Avevamo una giovenca, con il pelo color del pane, l’avevo allevata io da quando era ancora una vitellina, insieme ai gemellini, per me era come se fosse un terzo bambino, il suo pelo era soffice come la seta, come i capelli dei gemelli, il naso rosa, morbido, profumava di latte, come loro due. Mi prendevano in giro perché mi seguiva dappertutto, ma un giorno bisognò venderla, mi chiusero in solaio, tolsero la scala da sotto per impedirmi di correrle dietro (…) Mi chiusero la porta a chiave ma io riuscii a scappare, sapevo che se vendevano la giovenca poi la portavano via in treno, così corsi alla banchina, e quando arrivai l’avevano già spinta nel vagone insieme alle bestie degli altri padroni. Lei là dentro muggiva, io urlai il suo nome, non avevano ancora chiuso il portellone, quando sentì la mia voce si lanciò verso di me. I bambini sono stupidi, non sapevo che cosa avrei combinato chiamandola. Si ruppe le due zampe anteriori, perché cadde di sotto, chiamarono lo zigano per ucciderla con un colpo in testa, mio nonno mi maledisse, era meglio fossi morta io invece di quella bestia preziosa, buona a nulla che non ero altro. La macellarono e la fecero a pezzi, mi obbligarono a guardare mentre la uccidevano e la squartavano, non mi chieda quel che provai, imparai soltanto una cosa, non bisogna mai amare nessuno perdutamente perché altrimenti si causa la sua rovina. Se non è prima, sarà poi. La cosa migliore è non amare mai nessuno, perché così lui non si butta giù da un vagone e non lo fai ammazzare.”

Magda Szabò è morta nella sua casa di Budapest circa quattro anni fa con un libro in mano: il suo fazzoletto in testa.

Claudia Durantini

foto: diestandard.at

 

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