Leggendo sia la stampa tradizionale sia i commenti che circolano in rete, si ha come l’impressione che esista molta confusione sulla questione della manovra del governo che, tuttavia, è ormai da tempo centrale nel dibattito pubblico. Ciò che occorre considerare al riguardo per comprendere i termini della questione sono i diversi aspetti che si intrecciano e rendono poco chiaro il quadro complessivo.
In primo luogo, cominceremo dal considerare la diversa visione sul funzionamento dell’economia che divide il governo italiano dalle istituzioni europee. A partire dagli anni ottanta, viene a modificarsi radicalmente il paradigma economico. Riguardo alla politica monetaria, questa deve avere il compito di regolare le variabili di sua competenza (aggregati monetari, tassi) al fine di tenere sotto controllo le spinte inflattive. Questo non significa che le banche centrali non possano intervenire con politiche di segno contrario, ovverosia cercando di fare in modo che si alzi il tasso d’inflazione troppo basso e che è il sintomo di una bassa crescita. In parallelo, si è affermata l’idea che la politica fiscale, operata attraverso una dilatazione della spesa pubblica, abbia scarso o nessun effetto sulle variabili reali, almeno in periodi diversi da quelli di profonda recessione. Il paradigma in esame si è così anche fondato sulla rottura dell’asimmetria esistente tra stato e altri agenti economici che, in passato, poteva sostenere l’aumento del deficit pubblico attraverso la monetizzazione dello stesso. Invece di passare per il mercato, quindi indebitandosi con soggetti terzi, uno stato poteva ricorrere alla banca centrale che acquistava titoli difficilmente collocabili, se non dietro aumenti considerevoli dei tassi di interesse, finanziati mediante il meccanismo di creazione di base monetaria ex nihilo. Da notare che la politica monetaria era accomodante e ancillare rispetto a quella fiscale di aumento della spesa pubblica la quale, attraverso il cosiddetto meccanismo del moltiplicatore, si riteneva produrre un incremento del prodotto interno lordo più che proporzionale rispetto all’aumento di spesa pianificato dai governi.
Vi sono però casi in cui la politica monetaria viaggia in senso inverso rispetto agli obiettivi sopra indicati. Tuttavia, l’inflation target, come rammentato più sopra permane, solo che gli strumenti usati sono diversi, poiché l’inflazione è troppo bassa. In particolare, il quantitative easing messo in moto dalla BCE si fondava sul presupposto che l’eccesso di debito sovrano, soprattutto nei paesi del Sud, provocasse una rarefazione della liquidità disponibile attraverso il sistema bancario per finanziare investimenti delle imprese e consumi delle famiglie. Il sistema bancario europeo, allora, attraverso emissione monetaria, ha sequestrato titoli pubblici dai patrimoni bancari e li ha scambiati, temporaneamente, con liquidità. Questo meccanismo non ha funzionato e per due motivi. Il primo perché, alla fine, di liquidità addizionale, almeno nei paesi con eccesso di titoli nei portafogli delle banche, ne è stata impiegata poca. Il secondo, perché se il problema è il debito, prima di terminare il QE occorrerebbe ridurre drasticamente il debito in circolazione rispetto al PIL; anche questo obiettivo è stato conseguito solo molto marginalmente.
Ultimo ingrediente da considerare è il rapporto tra debito e prodotto interno lordo. Affinché il debito sia sostenibile, non è necessario che esso si riduca: basta che cresca meno che proporzionalmente rispetto al prodotto interno lordo. A corollario di ciò, è ovvio che maggiore sarà il deficit e maggiore l’incremento del numeratore del precedente rapporto, mentre cruciale diventa la relazione causale esistente tra lo stesso e il denominatore, ovverosia il prodotto interno lordo.
Veniamo ora a una serie di considerazioni, la prima delle quali riguarda la manovra economica. Qui la differenza di impostazione tra Governo e Commissione è strutturale, non contingente. Cosa significa? Semplicemente che per la Commissione qualsiasi incremento di spesa finanziato a debito non ha impatti significativi sul PIL, quindi per le istituzioni europee è certo che si alzerà solo il numeratore. Di conseguenza, il debito, mentre il denominatore resterebbe sostanzialmente invariato rispetto alle previsioni fatte in assenza di shock fiscale. Contingente significherebbe invece che la Commissione, pur riconoscendo la possibilità di moltiplicatori superiori all’unità, non ritiene che le spese indicate nella manovra possano avere effetti espansivi, mentre altre tipologie di intervento potrebbero invece averne. Essendo differenze radicali, non vi sono compromessi. Per il governo i provvedimenti finanziati a debito possono avere effetti più che proporzionali sulla crescita, e quindi il rapporto debito PIL è destinato a scendere, per l’Europa no e dunque il rapporto salirà quasi sicuramente. Ciascun lettore tragga le conseguenze del caso.
Secondo aspetto: la magnitudo dell’intervento. Secondo il modello di riferimento della Commissione, il rapporto tra deficit e PIL avrebbe dovuto assestarsi all’1,6%, con la possibilità di sforare dello 0,5% in due anni, quindi arriviamo all’1,85%, cui si potrebbe aggiungere un ulteriore 0,15% che porta al fatidico 2% indicato da Tria e di certo concordato con le istituzioni europee. Rispetto al 2,4% indicato dal governo, ma qui gioca anche la crescita del PIL, quindi la faccenda si complica, parliamo di un differenziale che va dai 6.8 ai 9,3 miliardi, che non cambierebbe sostanzialmente anche se aggiustassimo per la diversa crescita che hanno in mente commissione e governo. Peraltro, va qui notata la disponibilità del governo ad aggiustare negli esercizi futuri il deficit qualora la crescita non fosse quella desiderata.
Queste cifre, di fronte a 15.000 miliardi di PIL europeo, 1.700 circa italiano e 2.300 miliardi di debito pubblico nostrano non sembrano spostare molto gli senari locali e, a fortiori, continentali rispetto alle esigenze di “rientro” da un rapporto debito PIL che gravita intorno al 130%.
E allora, perché tanto rumore? Semplice: i guardiani dei trattati non vogliono che si creino dei precedenti in grado di spingere altri paesi a forzare questa visione della realtà, soprattutto a ridosso delle elezioni europee. A prescindere da ciò che può pensare ciascuno di noi sull’efficacia della politica fiscale, un’Europa che assomma (fonte istituto statistico tedesco) il 20% della popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale, salari che si muovono molto più lentamente della produttività del lavoro, una disoccupazione ancora attestata intorno al 7%, ma con grossi differenziali tra paese e paese e soprattutto senza avere ancora risolto il problema delle aree depresse (tra cui il nostro Mezzogiorno) mediante appropriate politiche di coesione, non può certo permettersi di deviare dalle regole. Un successo anche casuale, ma percepito come causalmente legato all’espansione fiscale, sarebbe mortale per gli attuali assetti politici.
Per finire i mercati, che fanno il loro mestiere e valutano il rischio. E qui il rischio non discende dall’entità dello strappo o dai suoi effetti sulla complessiva economia dell’Europa, ma dalla rigida e robusta contrapposizione tra le parti. La percezione dei “populisti” da parte dei mercati non è chiara, perché non è chiaro se vogliano solo strappare qualche decimale in più o se si tratta di una strategia messa in atto per far saltare il tavolo. E se saltasse il tavolo, sarebbero dolori per tutti. Le dinamiche economiche sono difficilmente prevedibili, prevedere quelle politiche, spesso irrazionali, è sostanzialmente impossibile. E così, meglio sbarazzarsi dei titoli italiani, facendo scendere i corsi e salire i rendimenti.
Simmetricamente, possiamo riprendere le considerazioni fatte con riguardo alla dimensione della manovra per poter ragionevolmente sostenere che essa non avrà grandi impatti sulla crescita, anche sposando la tesi keynesiana sui moltiplicatori. In linea generale, vi sono comunque una serie di questioni che occorrerebbe considerare per valutare i possibili impatti di un flusso esogeno di spesa pubblica, quali la propensione al risparmio, dettata da spinte psicologiche di carattere precauzionale, e l’elasticità del consumo all’import. Se, infatti, una buona parte dei consumi addizionali andasse in consumi per beni finali importati, il meccanismo di moltiplicazione non si metterebbe affatto in moto.
Il punto nodale, tuttavia, è un altro. Vi sono annosi problemi da risolvere nel nostro paese, che vanno dal processo di riqualificazione della spesa alla revisione del sistema tributario, in grado di conciliare un sistema di aliquote equilibrato e, nel contempo, recuperare la sostanziosa evasione fiscale che, stando a tutte le stime disponibili, risulta essere sensibilmente superiore alla media europea. E poi la grande assente: la politica industriale. Il sistema produttivo italiano continua a scivolare e perdere posizioni nel contesto internazionale, gli investimenti privati sono al palo e i consumi languono. Non ci facciamo mancare niente, ma i problemi, a quanto pare, sono sette, otto miliardi in più o in meno di spesa. Sia per noi, sia per Bruxelles.
Nella foto di copertina, il ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, il premier Giuseppe Conte e i vice premier Luigi Di Maio e Matteo Salvini
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