Pochi sanno chi sia Kevin Feige. Eppure rappresenta il deus ex-machina dei film di maggior successo planetario degli ultimi 10 anni. Classe 1973, nel 2000 è entrato ai Marvel Studios, la sezione cinematografica e di fiction, della storica casa editrice di fumetti supereroistici, diventando la mente che sta dietro le operazioni di successo nelle sale cinematografiche, che hanno coinvolto i celebri “super-eroi con super-problemi” (motto coniato da Stan Lee per definire i suoi personaggi).
Tutto iniziò con “Iron Man” del 2008. Prima di allora la Marvel Entertaiment aveva realizzato film di un certo successo, come la serie di “ Spider-Man”di Sam Raimi ecc., ma non era ancora cosi organizzata, diventando quel colosso dell’intrattenimento che è oggi.
I supereroi al cinema non godevano di buona fama: Ridley Scott aveva sempre detto che i “cinecomics” non gli interessavano, che nelle storie proposte non c’erano trame adeguate, ma solo accozzamenti di effetti digitali a oltranza. Steven Spielberg non ne avrebbe mai diretto uno, auspicando l’arrivo di una nuova generazione di sceneggiatori, che avrebbe potuto fare a meno dei film di supereroi per affascinare il pubblico, così come erano tramontati i film western negli anni ‘70.
La grande intuizione di Feige, complice uno sviluppo nel settore degli effetti digitali senza precedenti negli ultimi anni, l’aver capito che la chiave del successo sarebbe stata il cross-over fra supereroi. Già nelle storie dello stesso Stan Leepresidente e direttore editoriale della Marvel Comics i supereroi si incontravano spesso, condividevano lo stesso universo di eventi, e avevano anche già da allora, nelle pagine a fumetti, dato vita al gruppo degli Avengers(“I Vendicatori “in Italia, poi divenuti “Vendicatori della costa est”, e “Vendicatori e della costa ovest”).
Ma questa idea, trasposta al cinema ha prodotto un effetto-valanga che ha fatto generare agli Studios introiti miliardari (stiamo parlando di dollari) in tutto il mondo.
In “Iron Man 1”, che è un film godibile e dai buoni effetti, la chiave più importante fu prendere il veterano Robert Downey Jr. nei panni del miliardario play-boy cardiopatico e alcolizzato, Tony Stark, che indossa l’armatura futuristica dell’uomo di ferro. Downey Jr. grazie al suo carisma e alla sua fama di attore “fuori schema”, diventò il personaggio di punta del nuovo corso della Marvel al cinema. La saga prese poi maggiore forma con l’uscita del primo “Capitan America – The first Avenger”, per arrivare poi ad una vera e propria fase ulteriore con “The Avengers”, il film campione di incassi in cui si capirono del tutto le potenzialità di questo nuovo corso. Mettere insieme Iron Man con Hulk, Thor con Capitan America e con la Vedova Nera ecc. non solo portava gli appassionati dei singoli personaggi al cinema, ma gli spettatori addirittura si moltiplicavano con effetto-Gestalt (“il tutto è superiore alla somma delle singole parti”).
La DC Comics, storica rivale della Marvel, corse ai ripari: dopo i film “a solo” con Superman e Batman, aveva messo insieme la “Justice League”, coinvolgendo una ottima Wonder Womaninterpretata dall’attrice israeliana Gal Gadot e un’altra manciata di super-personaggi della sua scuderia e caratterizzandosi per toni più dark e lugubri (anche se con minor resa di pubblico, almeno allo stato attuale).
All’inizio si trattava di film slegati l’uno dall’altro, dopo Avengers e l’inizio della fase 3 i supereroi si incontrano, stringono legami, i film si parlano l’uno con l’altro come i tasselli di un unico puzzle. Tutti i personaggi Marvelcondividono lo stesso universo cinematografico, sono film che incentivano la continuity e la serialità.
L’industria cinematografica vista come fornitrice di “pezzi unici”, come “fabbrica di prototipi” viene meno, trionfa la serialità tipica delle fiction, arricchita con effetti speciali godibili soprattutto nelle sale. Questa è forse la formula vincente che spinge ancora gli spettatori al cinema, l’unica boccata di ossigeno per gli esercenti delle sale, oggi schiacciati dalle potenzialità del piccolo schermo e da Netflix.
Ora i film che incassano al cinema sono quelli dei super-eroi, e in particolare i cross-over fra supereroi, non c’è spazio per nessuno che possa competere (tranne forse gli altri in franchise effettistici alla Jurassic Park ecc.). Se sia un bene, o un male, non lo sappiamo.
Non sono mancate le polemiche: il regista Gonzales Inarritu (vincitore di cinque premi oscar) ha dichiarato che i cinecomic hanno l’effetto di un “genocidio culturale”, distruggono la già fragile psiche del pubblico giovane e lasciano solo macerie al loro passaggio. Gli ha risposto un piccato Robert Downey Jr., secondo il quale Inarritu, essendo di origine spagnola, se ne doveva intendere in materia di “genocidi”. Il tenore della polemica fu questo.
Tuttavia il cinema americano, a saperlo guardare con attenzione, è sempre portatore di una certa varietà e non conformità al proprio interno. C’è stato, all’interno dei grandi baracconi multimilardari che dicevamo, lo spazio per un “pezzo unico”, un vero e proprio prototipo come se ne vedono sempre meno al cinema: il “Logan” di James Mangold, con Wolverine, l’artigliato mutante interpretato da Hugh Jackman. In questo film è mostrato un Wolverine vecchio, acciaccato, ombroso, che come un moderno Cavaliere della valle solitaria (il celebre western “Shane”, di cui alcune sequenze sono mostrate nel film di Mangold) dice addio al suo pubblico alla fine della pellicola. “Logan”, film on the road e meno costoso del solito, è stato premiato all’ultima notte degli Oscar, primo “cinecomic” a conquistare l’Academy Award per la sceneggiatura. Quindi l’uniformità e la non-trasgredibilità della formula Marvel ad alto costo non è così indiscutibile e monolitica, come molti affermano.
Lo stesso Spielberg alla fine si è convinto a girare un cinecomic (farà “BlackHawk”, ma non per la Marvel, ma per la DC-Warner bros.), e molti altri celebri director e attori forse rimpiangono il momento in cui potevano firmare un contratto con i Marvel Studios e se lo sono lasciato sfuggire.
E’ noto il metodo di lavoro di Kevin Feige, che con indosso il suo cappellino da baseball e camiciola hawaiana, circola fra le redazioni della Marvel, mette il suo capoccione rotondo e rubizzo dentro una delle stanze dove gli sceneggiatori lavorano ad uno dei vari capitoli, lancia i suoi consigli e le sue osservazioni di raccordo fra un film e l’altro, fra una redazione e l’altra (un “ricordatevi del Dottor Strange”, oppure “c’è sempre il Winter Soldier da tenere presente”, cose così) e va via, sempre ben consapevole che il suo ruolo di raccordo è il cemento dell’universo in questione. Lui funge un po’ da “regista di produzione”, un numero 10 che sa dove, a chi e quando lanciare gli assist più adeguati.
I cinecomic della Marvel sono un lavoro serio per lo spettatore: vanno visti tutti, non ne deve sfuggire uno, perché bisogna ricordarsi cosa è successo nel precedente e tenere conto di quali informazioni sono lanciate per il successivo (i celebri “cameo” che tutti i fan Marvel che si rispettino attendono religiosamente dopo lo scorrere dei titoli di coda del singolo film).
Se ci sfugge qualcosa di contorno, un “Deadpool 1 o2”, un “Ant-man & the Wasp”, si rischia sul serio che i conti non ci tornino più.
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