Tra gli argomenti che hanno fatto discutere in questa calda estate vi sono state le dichiarazioni del Ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, nel corso del suo intervento all’incontro: ‘Food Security e sostenibilità‘ nell’ambito del Meeting di Rimini.
Quell’affermazione per cui in Italia, grazie ad un modello alimentare interclassista, i poveri spesso mangerebbero meglio dei ricchi perché avrebbero accesso, a basso costo, al mercato dei piccoli produttori di qualità.
Un po’ per il periodo vacanziero, un po’ per la velocità della rete nel diffondere le sin troppo frettolose affermazioni del Ministro è iniziata la gara a chi trovava la risposta più ironica sino a richiedere il riconoscimento delle stelle Michelin alle mense della Caritas.
Eppure gli stessi che si sono scagliati contro questa infelice sortita ministeriale sono probabilmente quelli che hanno fatto della dieta mediterranea un manifesto culturale ignorando che il fondamento di quel modello alimentare unanimemente ritenuto virtuoso, ed il successo che esso ha riscosso, inizialmente soprattutto negli Stati Uniti, grazie ad Ancel Keys ed a sua moglie Margaret Haney, era esattamente lo stesso delle affermazioni del Ministro: quel rivelare al bulimico popolo statunitense che lo stile alimentare di popolazioni che vivevano nel Meridione italiano nel periodo immediatamente successivo al secondo dopoguerra ed al limite se non spesso addirittura al di sotto della soglia di povertà, era superiore in termini salutistici rispetto all’iperproteico stile alimentare nordamericano.
Le virtù vere o presunte dell’alimentazione e della cucina povere
La «dieta mediterranea» enucleata da Ancel Keys, con la prevalenza di alimenti di origine vegetale e poveri di grassi e di zuccheri raffinati, rappresenta solo uno dei moltissimi tentativi che le classi abbienti hanno fatto, a livello scientifico o pseudoscientifico, per recuperare, in un contesto di piena soddisfazione alimentare, le virtù, vere o presunte, dell’alimentazione e della cucina povere.
In epoca romana gl’intellettuali-contadini, da Marco Porcio Catone a Lucio Giunio Moderato Columella passando per Marco Terenzio Varrone, sono stati tutti sostenitori delle virtù salutistiche e morali del cibo povero e contadino e della frugalità, soprattutto in contrapposizione alla sfrenata ingordigia e all’eccessiva sofisticazione dell’alimentazione delle classi abbienti in età tardo repubblicana e imperiale.
In seguito, e sino ai nostri giorni, sarà la dietetica a propugnare le virtù dell’alimentazione e della cucina povere.
V’è tutto un filone salutistico-letterario che muove dal poemetto dell’XI secolo «Regimen Sanitatis Salernitanum» (la cosiddetta Scuola Salernitana) passa per l’esaltazione del «vitto quaresimale», cioé dell’assenza o della forte limitazione dei grassi animali, e che si esprime oggi nell’esaltazione degli alimenti ricchi di fibre, un tempo appannaggio solo di coloro che non potevano permettersi il cosiddetto fior di farina, del cibo di strada ed in cui si esprime una sorta di rimpianto dei ricchi verso l’alimentazione e la cucina povere di un passato che si fa peraltro fatica a datare.
Sarà Pellegrino Artusi nel suo «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene», il punto di vista culinario di un borghese banchiere e proprietario terriero, a coniugare abbondanza, ricercatezza alimentare e salute, rivendicando il diritto dei ricchi borghesi, che nell’Italia post-unitaria iniziavano ad affermare il loro ruolo di classe dirigente, di mangiare «da ricchi» in contrapposizione, ideologica e classista, con la cucina popolare, che pure entrava nelle case dei borghesi e dei nobili con il personale di cucina di estrazione contadina.
A sua volta il regime fascista, nella vana ricerca di un’impossibile autosufficienza alimentare, recuperò, con l’involontaria complicità di Ada Boni, quei concetti di povertà alimentare con tutta una serie di sollecitazioni alla cucina autarchica e quindi, per forza di cose, popolare.
Un punto di vista, quello dell’esaltazione dell’alimentazione e della cucina povere, evidentemente non condiviso da quelli che poveri lo erano per davvero e la scena cult del film «Miseria e nobiltà» di Mario Mattioli del 1954, quella della danza di Totò sulla tavola imbandita, con le mani di Totò che afferrano gli spaghetti e li mettono in bocca ed in tasca, è la rappresentazione più efficace di come per le persone meno abbienti l’abbondanza del cibo fosse un desiderio spesso inappagato.
Quello stesso desiderio di esagerare che provocherà al personaggio di Capannelle (intepretato dal magnifico Carlo Pisacane) un «infarto de panza» che nel film «Audace colpo dei soliti ignoti» del 1959 lo porterà dritto in ospedale per aver speso una parte del bottino al Ristorante Corsetti 1921 in Piazza San Cosimato a Trastevere, uno dei più rinomati dell’epoca, consumando voracemente antipasti misti, agnolotti, trippa, abbacchio, ossobuco, zuppa di pesce, dolci, macedonia, caffè, liquorino, fagioli col tonno.
Quali fossero le reali condizioni alimentari delle classi meno abbienti agli inizi del XX secolo ce lo racconta invece «Il ventre di Napoli», scritto da Matilde Serao tra la fine del 1800 ed il 1906 ed un estratto del saggio della Serao ci consente di comprendere uno snodo fondamentale della questione: anche laddove le fonti di approvvigionamento erano le stesse, nel caso della Serao i mercati di strada, la maggiore o minore disponibilità economica incideva, allora come adesso, non solo sulla quantità acquistabile, ma sulla qualità.
I ricchi, a parità di alimenti, hanno accesso alle primizie, ai pezzi migliori, mentre ai poveri non restano che gli scarti.
«Alla mattina il tonno va a ventisei soldi e il pescivendolo grida il prezzo con orgoglio: ma, come la sera arriva, per il declinare dell’ora e della merce, il tonno scende a ventiquattro, a una lira, a diciotto soldi; quando arriva a dodici soldi, la gran nota sinfonica del puzzo ha raggiunto il suo apogeo». «Con un soldo si hanno sei peruzze un po’ bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po’ flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l’aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po’ fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri».
Nelle campagne, anche quelle del Nord, la situazione, ancora dopo il secondo conflitto mondiale, non era molto diversa.
Ne fornisce uno spaccato la lunga intervista a Giovanni Zorzi di Maria Molon, una delle donne del Veneto che aveva partecipato alla bonifica di Maccarese: «minestra, non ghe s’era pastasciutta. La carne se la dava na volta a la settimana, del pursell se magnaa tutto, se buttaa solo unge e pelo! Col pursell se fasea l’osso collo, pancetta, cudeghin, l’onto».
Di necessità virtù: la prevalenza della cucina popolare nello stile alimentare italiano
Le grandi migrazioni interne dal Sud al Nord industrializzato, l’industrializzazione delle paste alimentari e delle conserve, i miglioramenti agrari, i repentini mutamenti sociali e nel costume a partire dai primi anni del secondo dopoguerra hanno finito, tra gli altri fattori, per rendere prevalente, in quella cucina che si può definire convenzionalmente «italiana», la sua anima popolare.
Le prime avvisaglie del tramonto in Italia della cucina di stampo prettamente transalpino, tanto invisa a Pellegrino Artusi che voleva sostituirla con una cucina altrettanto sofisticata, ma dichiaratamente italiana anche nella terminologia, si erano avute già negli anni ’20 con l’avvicendamento all’Artusi dell’opera di Ada Boni che con «Il Talismano della felicità» propugnò un nuovo modello culinario nazionale che riordinava, raffinandola, la cucina popolare regionale e si rivolgeva, sin dalla prefazione del libro, ad un universo femminile tutto vocato alla cura della casa e della famiglia.
«Di Voi, Signore e Signorine, molte sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studi superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici, ed altre ancora sono esperte nel tennis o nel golf, o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova al guscio».
La stessa Boni che antepose alle sue ricette quell’«Elogio della cucina italiana» che in seguito rappresenterà la base per quell’orgoglio culinario italiano che si esprimerà ironicamente in Checco Zalone e nella celeberrima scena di «Quo vado?» in cui Checco, armato di scala e cacciavite, smonterà l’insegna di un locale norvegese di «Cucina italiana» reo di cuocere gli spaghetti partendo dall’acqua fredda.
Impossibile poi non tenere conto degl’influssi del Cinema, con un’intera generazione di cineasti inizialmente squattrinati (Ettore Scola, Mario Monicelli, Federico Fellini, Pierpaolo Pasolini, Citto Maselli, Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Furio Scarpelli, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Franco Solinas, Age e molti altri) che s’incontrava a Roma nella trattoria da «Otello alla Concordia» nella centralissima Via Mario de’ Fiori e che darà vita a tutta una serie film in cui la cucina popolare verrà utilizzata come sfondo alle vicende dei protagonisti o come metafora.
Memorabili l’incrocio di forchette del trio Gassman, Manfredi, Satta Flores in «C’eravamo tanto amati» di Ettore Scola, la scena della trattoria «Dar Vesuviaro» in «Roma» di Federico Fellini e quella dell’incontro tra Alberto Sordi ed Elena Fabrizi (la Sora Lella) nella cucina della stessa Sora Lella all’Isola Tiberina in «Scusi, lei è favorevole o contrario?» diretto ed interpretato dallo stesso Alberto Sordi.
Quell’Alberto Sordi che in «Un americano a Roma» aveva trasformato un piatto di spaghetti in un colossale antidoto allo strapotere della cultura americana che, con la liberazione dal nazifascismo, aveva fatto irruzione nella penisola con la musica e la Coca-Cola.
Impossibile poi ignorare i contributi cinematografici-culinari di Totò e Aldo Fabrizi mentre la televisione, inizialmente con «Viaggio nella Valle del Po» di Mario Soldati, la prima trasmissione enogastronomica della Rai messa in onda alla fine degli anni ’50, poi con la fortunata trasmissione «A Tavola alle 7» condotta alle metà degli anni ’70 da Ave Ninchi e Luigi Veronelli, la madre di tutte le trasmissioni televisive culinarie che portò i divi del momento a misurarsi con la cucina italiana, contribuì non poco a diffondere la cucina popolare come cucina nazionale ed elemento identitario italiano.
Un filone cultural-popolare in cui s’immergeranno anche Francesco Guccini con le sue osterie bolognesi, Pino Daniele col suo graffiante «Dieta mediterranea e ti fa bene/Ma a che ti serve se ti fai le pere?» in «Fatte ‘na pizza» sino a «La dieta» di Luca Barbarossa.
Tutte manifestazioni, più che di un modello alimentare interclassista, di appropriazione da parte della borghesia colta e agiata della cosiddetta «cultura popolare» (o meglio della sua proiezione borghese) mentre tra le classi meno agiate il posto delle trattorie e delle osterie (trasformatesi in locali alla moda) veniva preso dalla ristorazione a basso prezzo che di popolare e di nazionale non ha nulla: dai fast food ai locali fintamente etnici, dai cosiddetti kebbabbari ai sushi bar all-you-can it..
L’accesso dei meno abbienti al mercato di produttori
L’accesso delle classi meno abbienti, soprattutto metropolitane, al mercato dei produttori è un fenomeno che già alla fine degli anni ’70 si andava esaurendo complice l’avvento della grande distribuzione e della refrigerazione di massa che ha consentito di rallentare il deperimento dei prodotti agricoli.
Nei mercati rionali di Roma, ma è da presumere che questo avvenisse un po’ dappertutto, alla fine della giornata e soprattutto al sabato i cosiddetti «vignaroli», cioé i produttori-venditori, vendevano a prezzi notevolmente ribassati gli scampoli: cassette o mezze cassette di frutta e di verdura ancora buona che non valeva la fatica di riportare a casa perché nel viaggio o nelle ore immediatamente successive sarebbe rapidamente deperita.
Passato mezzogiorno, quando i banchi si approssimavano alla chiusura, risuonavano le grida dei venditori con cui s’invitavano le madri di famiglia a valutare con uno sguardo le cassette in cui i pezzi migliori occultavano la frutta bacata e le verdure ormai appassite.
Tanto si predeva tutto, anche la frutta ammaccata che sarebbe finita nelle confetture per l’inverno e la verdura meno fresca con cui fare zuppe e minestroni.
In piena estate il prezzo dei pomodori, a differenza di oggi, crollava ed iniziava il confezionamento delle «bottiglie di pommarola» in cui le famiglie, spesso coinvolgendo anche i vicini, si trasformavano in laboratori di conserve di pomodoro in un rituale collettivo che andava avanti sino al mattino dopo.
Ora la grande distribuzione organizzata, soprattutto quella dei discount, assorbe più del 90% del mercato alimentare, porta nelle tavole alimenti di provenienza lontanissima e di bassa qualità, come il basilico vietnamita, l’aglio cinese, i limoni sudafricani e l’olio extravergine di provenienza Ue che di quello autentico ha solo l’etichetta, omologa il gusto con le merendine a basso costo e, a suo modo, funziona come ammortizzatore sociale perché, con le offerte speciali, rallenta la crescita dell’inflazione.
I piccoli produttori, assediati dalla grande distribuzione che pretende di acquistare a prezzi stracciati, resistono e si coalizzano nei Mercati Contadini, investono tempo ed energie per difendere il cibo di qualità a prezzi equi, ma l’accesso ai loro prodotti resta riservato in massima parte a chi ha disponibilità di tempo e di denaro ed è disposto a pagare qualcosa in più o a sobbarcarsi le spese delle sortite nelle aziende e nel Mercati.
I mercati rionali, che in massima parte ripetono un modello commerciale superato di apertura quasi esclusivamennte mattutina, hanno in gran parte smarrito la loro funzione di mediazione tra produttori e consumatori omologandosi qualitativamente, con le dovute eccezioni, alla grande distribuzione che invece ha orari di vendita estesissimi.
Nelle classi popolari, complici la mancanza di tempo e la caoticità della vita metropolitana, si è andata progressivamente perdendo la percezione del reale valore del cibo che si presume più o meno tutto uguale salvo il prezzo e allora si guarda più alla forma che alla sostanza, all’aspetto più che alla provenienza o alle qualità intrinseche.
Se da un lato si registra una positiva riscoperta del valore del cibo da parte della popolazione più scolarizzata e di media e alta disponibilità economica, chi ha meno soldi e meno disponibilità di tempo (i «poveri» delle dichiarazioni ministeriali) riempie compulsivamente i carrelli dei supermercati con prodotti di qualità decrescente.
Per invertire la tendenza, invece di fornire rappresentazioni edulcorate e sempre più lontane dalla realtà, ci vorrebbe una vera politica agroalimentare che ascolti i produttori, faccia educazione alimentare nelle scuole, agisca realmente contro la speculazione, accorci la filiera, favorisca le giovani imprese.
Tutte cose giuste per un’altra generazione direbbe Giorgio Gaber.
In copertina, un fotogramma del film Miseria e nobiltà di Mario Mattoli
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