Nati il 4 luglio 1776

Per un americano che si consideri tale, il 4 luglio è il giorno dell’orgoglio e dell’identità nazionale. Il motivo è radicato nella storia. Il 4 luglio 1776 tredici colonie americane firmarono la Dichiarazione di Indipendenza dall’Impero Britannico e nacquero gli Stati Uniti d’America. Oggi gli Stati Uniti sono cinquanta.

Il 4 luglio è un giorno di festa nazionale e ogni anno fastose celebrazioni hanno luogo nelle principali città americane. Sarà così anche quest’anno?

L’America che si appresta a festeggiare se stessa è un paese in profonda crisi politica e sociale. Fortemente colpita dal Coronavirus. Ma ciò che più sta lacerando la società americana sono le discriminazioni nei confronti dei più deboli. Queste discriminazioni riguardano in particolare i gli afroamericani. 

Sull’onda dello sdegno suscitato dall’uccisione di George Floyd, il nero afroamericano soffocato da un agente di polizia a Minneapolis in Minnesota, la protesta antirazzista ha attraversato l’America e poi ha fatto il giro del mondo superando, in impeto e velocità, la pandemia da Coronavirus. Le immagini degli ultimi minuti della vita di Floyd resteranno a lungo nella memoria collettiva. Il suo lamento “I can’t breath”  (“non posso respirare”, ndr) ha commosso milioni di persone che, unite da un forte anelito di giustizia, hanno riempito le strade e le piazze di molte città d’America e non solo. Nonostante le devastazioni e i saccheggi delle prime ore abbiano comportato il rischio di compromettere la legittimità della protesta, il consenso che essa ha ottenuto ha superato le aspettative degli stessi organizzatori. Neanche il mortale attentato a Martin Luther King, il 4 aprile 1968 a Memphis in Tennessee, aveva suscitato una reazione tanto vasta come quella messa in moto da “Black Lives Matter”, movimento attivista internazionale nato nel 2013.

Un recente sondaggio della Monmouth University nel New Jersey ha evidenziato che gli statunitensi che credono che il razzismo sia un grande problema sono il 76% della popolazione, nel 2015 erano il 50% (fonte: New York Times). Il consenso di massa raggiunto dal movimento dopo la morte di Floyd ha superato di gran lunga quello che aveva Martin Luther King al culmine della sua popolarità, quando a Washington pronunciò il suo veemente discorso contro la discriminazione razziale e per ben sei volte ripeté la frase «I have a dream». A oltre mezzo secolo di distanza quel sogno è ancora ben lungi dal realizzarsi e tuttavia oggi c’è una diversa sensibilità a livello globale. 

Per le modalità in cui è accaduto, l’episodio di Minneapolis ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso ed è riuscito a innescare qualcosa di nuovo, inatteso e simultaneo: la caccia ai memoriali di personaggi storici che, già controversi, sono diventati improvvisamente sgraditi. Un tempo celebrati, poi tollerati, poi di colpo rinnegati e oltraggiati. Cristoforo Colombo e Wiston Churchill i più famosi. Ma anche Robert Edward Lee, generale sudista; il re belga Leopoldo II; Jean-Baptiste Colbert, ministro sotto Luigi XIV. La protesta antirazzista è diventata furia iconoclasta.

Il caso più spettacolare è stato quello della statua di Edward Colston, mercante britannico che si arricchì con il commercio degli schiavi. Nato nel 1636 a Bristol, visse 85 anni. Con i guadagni accumulati fece opere di bene e costruì scuole. Circa due secoli dopo la morte, nel 1895, Bristol gli dedicò una statua con un’iscrizione che diceva “Eretta in memoria di uno dei figli più virtuosi e saggi della città”. Ora quella statua non c’è più. Il 7 giugno i manifestanti di Black Lives Matter l’hanno abbattuta,  trascinata per le strade della città e buttata nelle acque del porto. Amen. 

La tratta degli schiavi è stata uno dei capitoli più crudeli della storia dell’umanità e ha interessato almeno 12 milioni di neri africani costretti a lavorare nelle piantagioni di cotone, cacao, zucchero e tabacco delle colonie americane. Quando, il 4 luglio 1776 tredici colonie dichiararono la propria indipendenza e nacquero gli Stati Uniti d’America, la schiavitù era un istituto previsto dalla legge. Ignorare questo particolare quando si afferma che gli Stati Uniti sono la più vecchia democrazia del pianeta equivale a giustificare una contraddizione che sopravvive ancora oggi. La guerra di secessione, che si combatté tra gli Stati del nord e quelli del sud dal 1861 al 1865 proprio a causa della schiavitù e che terminò con la sua abolizione, non è bastata a liberare gli Stati Uniti dal germe del razzismo.

Dall’abolizione della schiavitù ad oggi sono passati 155 anni durante i quali il razzismo ha continuato a pervadere la società americana e poco o nulla ha potuto l’elezione di Barack Obama, primo presidente afroamericano eletto alla Casa Bianca.

Oggi alla guida del paese c’è Donald Trump, un leader, per molti incapace, che strumentalizza i grandi temi che affliggono l’umanità nel XXI secolo, migrazione, razzismo, clima, col risultato di accentuare divisioni e conflitti nella società americana e nel resto del mondo. Dopo tre anni e mezzo di Fake News la maggioranza dei cittadini si è finalmente resa conto di chi li governa e ora è presumibile che l’aspettativa di giustizia sociale che aleggia in America contribuirà all’uscita di scena di Trump. Auspicabilmente lo stesso destino toccherà ad altri leader che in Trump hanno trovato un modello di riferimento. 

Nota relativa all’immagine di apertura: Firma della Dichiarazione d‘Indipendenza. Dipinto di John Trumbull del 1819. Si trova nella sala rotonda del Palazzo del Campidoglio a Washington 

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