Non è questa l’Europa che vogliamo

Come definire lo spettacolo Grexit al quale stiamo assistendo ormai da mesi se non surreale, grottesco e desolante? La settimana scorsa l’accordo sembrava raggiunto. Le proposte di riforma che Tsipras aveva messo sul tavolo dopo il referendum erano persino più severe di quelle che lui stesso aveva rifiutato solo pochi giorni prima. Poi tutto è cambiato in peggio. Alla Grecia sono stati chiesti sacrifici ancora più grandi, ancora più umilianti.

Ma la vera umiliazione è quella che si è consumata nei confronti di una idea di Europa basata sui principi dell’unità, della condivisione dei sacrifici e della solidarietà. Le riunioni interminabili, i balletti infiniti sulle cifre, i vertici notturni dei capi di stato, le discussioni tra paesi “falchi” e paesi “colombe” mostrano chiaramente l’incapacità dell’Europa di superare le difficoltà attuali e di fare un salto di qualità, di liberare se stessa dal labirinto di regole e procedure in cui si è cacciata.

La nazione che più ha da perdere da una eventuale fuoriuscita della Grecia è la Germania. Infatti la Germania è la nazione che ha più guadagnato dall’entrata in vigore dell’euro. Nel 2002 la ricchezza dei tedeschi era quantificabile in circa 2.400 miliardi di euro. Dopo dieci anni, nel 2012, era di 4.800 miliardi, praticamente raddoppiata. Oggi si stima che essa superi i 6.000 miliardi. Ogni tedesco in media possiede circa 83.000 euro.

La ricchezza dei tedeschi si deve soprattutto alla grande qualità della tecnologia tedesca e all’esportazione che la moneta unica ha favorito in modo particolare in ambito europeo. I cittadini greci non potendo acquistare prodotti nazionali sono costretti a comprare nel mercato globale. Acquistando i prodotti tedeschi, elettrodomestici, automobili, medicinali e quant’altro, hanno contribuito alla creazione della ricchezza tedesca.

La Grecia ha un debito di 300 miliardi di euro. Se ogni tedesco mettesse mano al portafogli, 3.750 euro basterebbero a ripagare il debito greco. Gli rimarrebbero un po’ meno di 80.000 euro. Niente male. Se ognuno dei 500 milioni di europei dell’UE mettesse mano al portafogli questa somma si abbasserebbe a 600 euro. Sono 50 euro al mese per 12 mesi, e sarebbe un buon investimento per le generazioni future.

Certo, sono conti “della serva” e l’ipotesi di cancellare il debito greco con il contributo di ogni cittadino europeo non è praticabile. Tuttavia i suddetti conti servono a dare una misura della problematica. Se l’Europa non fosse solo la mera unione contabile e amministrativa basata sul rispetto dei parametri di Maastricht, se fosse un’unione politica e sociale, avrebbe tra i suoi principi fondanti il valore della solidarietà.

All’indomani della caduta del muro la Germania introdusse il cosiddetto “Solidaritätszuschlag” (soprattassa di solidarietà, ndr) un contributo che ciascun lavoratore tedesco ha pagato e ancora oggi paga per sostenere i costi della unificazione tra Germania Ovest ed ex-DDR. Si tratta di circa 15 miliardi di euro all’anno, un sacrificio cominciato a partire dal 1991, necessario per risollevare i Länder orientali dallo stato di depressione economica determinata da tre decenni di occupazione russa. Un mare di soldi affluito nelle casse dei comuni della ex-DDR per finanziare la ricostruzione.

Un mare di soldi, versato dai cittadini tedeschi, il cui ammontare complessivo è paragonabile, se non superiore, al debito greco. Di tanto in tanto si sentono e si leggono notizie sulla possibilità di abolire la soprattassa di solidarietà. Sembra tuttavia che i tedeschi continueranno a versarla almeno fino al 2020. L’aspetto più importante è però un altro, quello della Unione delle due Germanie. Nonostante qualcuno abbia borbottato per la soprattassa, nessuno dal giorno della caduta del muro ha messo in discussione l’appartenenza della ex-DDR alla Germania. Parimenti, se l’Europa fosse una unione politica compiuta nessuno potrebbe minacciare l’espulsione di una delle sue nazioni. Nessuna nazione potrebbe umiliare un’altra nazione.

Torniamo ai conti della serva. Durante questi ultimi mesi, nei giorni in cui l’ipotesi Grexit ha preso il sopravvento le borse europee sono crollate di alcuni punti percentuali perdendo in un solo giorno una somma equivalente al debito greco. La domanda è: cosa succederebbe ai mercati finanziari se la Grecia uscisse dall’Europa? E, soprattutto, cosa succederebbe se, quale conseguenza dell’uscita della Grecia, si assistesse alla disgregazione economica e politica dell’Europa?

La questione greca ha messo chiaramente in luce i limiti intrinseci dell’Unione Europea e delle sue istituzioni. Ma soprattutto ha reso chiara l’incapacità della politica, dei politici attuali, ad affrontarla con una visione strategica e lungimirante. Va detto che Grexit non è l’unica questione che rischia di affondare l’Europa. Migrazione, lotta al terrorismo, difesa, politica estera, politica fiscale, sono alcune delle tante altre questioni che imporrebbero una gestione comune e condivisa. Che imporrebbero una accelerazione del processo di integrazione politica europea e che invece rischiano di sfasciare l’Europa per come oggi essa è. Per come la crisi greca ce la sta facendo conoscere. Non è questa l’Europa che vogliamo. E non sono questi i politici che vogliamo.

Nel corso della sua recente visita un Germania la regina Elisabetta ha pronunciato parole allo stesso tempo di allarme e di monito. Un monito a non dimenticare la lezione della storia, a combattere le divisioni all’interno dell’Europa, a difendere l’unità costruita dopo due guerre mondiali. La regina era stata in visita, prima volta nella sua vita, in un ex-campo di concentramento, quello di Bergen Belsen. I capi di stato europei le loro riunioni dovrebbero farle in una delle baracche di uno dei tanti ex-campi di concentramento di cui l’Europa è disseminata. Memoriali a cielo aperto di un passato neanche troppo lontano. Chi scrive è convinto che le loro estenuanti, infinite riunioni sarebbero più brevi e risolutive. Scusate la retorica.

di Pasquale Episcopo

foto: Huffington Post

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