Io non ho le scarpette rosse e non amo lasciare nessun posto vuoto nei luoghi pubblici che frequento. Preferisco che quel posto sia occupato da una donna, da una ragazzina, da un uomo e che tutti insieme ascoltino le parole che vado dicendo contro la violenza di genere.
Non amo parlare di “femminicidio” ma di crimine contro la persona, non aspetto il 25 novembre lasciando scorrere i giorni che mi separano dalla giornata dedicata alla violenza sulle donne, e se sono sul palcoscenico in questo giorno è per ricordare che l’impegno dev’essere costante.
In tutti gli altri giorni dell’anno non chiudo la porta, non alzo il volume della musica, non fingo di non vedere, non trovo giustificazioni, non mi faccio gli affari miei e non cambio strada se mi accorgo che una donna è in potenziale pericolo.
Guardo, ascolto, soffro, mi arrabbio, faccio rumore, insisto, spingo a parlare, accompagno, motivando e spiegando cosa significa amare davvero una persona e, anche quando vengo mandata via, non mi arrendo perché tutto questo è una mia responsabilità.
È una mia responsabilità non voltare la testa, cercare di arginare e spezzare il ciclo della violenza che rende una donna vittima e un uomo il suo carnefice. Per far ciò ho bisogno di avere certezze, prima fra tutte la certezza che, nel mio Paese, vengano rispettati gli articoli della Convenzione di Istanbul (1) e che il fenomeno della violenza di genere sia riconosciuto, trattato e contrastato come fatto sociale e non come un momento di lucida follia da parte dei colpevoli di tale efferato reato.
Ho bisogno che la donna che sceglie con gran coraggio di denunciare il suo aguzzino sia tutelata, ascoltata nel giusto modo, accolta degnamente dalle forze dell’ordine a cui vengono dati giusti strumenti per affrontare insieme a tutta la rete di sostegno quella che, dalla denuncia in poi, diventerà una situazione d’emergenza in cui il tempo e la prontezza degli interventi si riveleranno fondamentali per evitare processi di ri-vittimizzazione.
Ho bisogno che non ci siano stereotipi e pregiudizi ad ostacolare il percorso verso l’uscita da una situazione di violenza, ho bisogno che le nuove generazioni siano informate del fenomeno e che vengano educate quotidianamente alla gentilezza, al rispetto, alla cura dell’altro, a combattere la disumanizzazione della persona che è conseguenza di una sovraesposizione ai mezzi informatici e di comunicazione.
Ho bisogno che l’impegno sia costante e non sia un impegno volto ad ottenere fondi per implementare progetti a termine lasciando, alla loro scadenza, la donna abbandonata a se stessa.
Ho bisogno che tutte le donne e tutti gli uomini parlino ai loro figli della meravigliosa consuetudine di vivere tra simili e amarsi, rispettando le differenze.
(1) L’ articolo 18 della Convenzione di Istanbul impone “la cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti comprese le autorità giudiziarie a tutela dei diritti delle donne vittime di violenza di genere”.
di Deborah Capasso de Angelis
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