Origin, il nuovo libro di Dan Brown, nonostante le vendite, ha deluso molti lettori. Personalmente, ho capito chi era il colpevole sin dall’inizio. Dopo di che, pagina dopo pagina, mi sono solo interrogata sull’opportunità di continuare a leggere. L’ho fatto solo perché non mi piace lasciare le cose a metà. Allarme spoiler: ho cercato di non anticipare il finale, in questa mia critica, ma preannuncio che potrebbe essere desumibile dalle mie parole.
Origine. Inizio. Di cosa? Inizio di un romanzo di 558 pagine per il quale ne sarebbero bastate, forse, la metà della metà; oppure inizio di un’ispirazione manieristica e decadente che vive dei fasti passati. Dan Brown mi ha delusa parecchio, con il suo ultimo libro. E lo dico con una vena di tristezza, perché, in passato, mi era piaciuto. Non sempre, ma mi era piaciuto.
Origin è un romanzo che ruota attorno a due domande: “da dove veniamo?” e “dove andiamo?”. La premessa potrebbe essere intrigante. Gli scrittori hanno nella loro faretra la fantasia, del resto, che può scardinare gli angusti limiti della scienza, della storia o della filosofia; gli scrittori possono permettersi di rendere verosimile l’impossibile e costruirci attorno un thriller intrigante. E’ ciò che Dan Brown ha fatto con Il Codice Da Vinci, se ci pensiamo: ha preso un’idea geniale, sulla quale Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln anni prima avevano costruito un interessante saggio, Il Santo Graal, e ha realizzato un thriller mozzafiato. Tanto di cappello.
In questo libro, però, abbandonato l’accattivante enigma di un codice celato in un dipinto cinquecentesco, Dan Brown si è impegnato ad arrangiare un thriller su futuristici studi cibernetici e, secondo me, non ha neppure lontanamente sfiorato il buon confezionamento del primo libro.
L’idea iniziale non è malvagia. Di saggi sull’argomento, che possono validamente rappresentare il trampolino di lancio di un thriller, ce ne sono a iosa. A partire dagli studi di Alan Turing, che ha posto le basi per l’Intelligenza Artificiale ideando un test per verificare la capacità delle macchine non tanto di pensare, quanto di sentire, di avere un’anima; fino ai più recenti contributi che parlano di computer universale e simulazione quantistica, di cui son pieni gli scaffali delle biblioteche. Nelle mie limitatissime conoscenze saggistiche sull’argomento, formate grazie a pregevoli testi di ampia divulgazione, rientra il libro di Jerry Kaplan, Le Persone non Servono, dove si adombra l’obsolescenza umana ad opera delle macchine, e quello di Yuri Castelfranchi ed Oliviero Stock, Macchine come Noi, al termine del quale gli autori si pongono la fatidica domanda sull’opportunità o meno di impegnarsi nella costruzione di un’intelligenza artificiale in grado di comportarsi come se avesse un’anima.
E non sono solo gli scienziati ad aver scritto su questo argomento. Anche nel mondo del cinema e della letteratura il tema è stato ampiamente sfruttato, a partire da Pinocchio, se vogliamo, il burattino che aspira ad avere un’anima, dall’Uomo di Latta del Mago di Oz che vuole un cuore, fino a D-3BO, il robot cerimonioso e delicato, superintelligente ed emotivamente fragile di Guerre Stellari. Poi, ovviamente, tra le intelligenze artificiali che, nel catturare l’essenza dell’anima e dei sentimenti, si fanno inquietanti, giganteggia Hal di 2001 Odissea nello Spazio, cui lo stesso Dan Brown fa cenno, all’inizio del libro, rammentando al lettore la sigla che quel nome cela, individuabile con uno dei più antichi sistemi di crittografazione, la sostituzione di Cesare.
Al mondo della fantasia, sia esso di celluloide o di carta, è sempre piaciuto il tema dei computer e dei robot capaci di riprodurre il pensiero umano così come il coacervo di sentimenti che sono alla base di alcune sue scelte: Terminator, A.I. Intelligenza artificiale, L’Uomo Bicentenario e chi più ne ha, più ne metta. Non parliamo, poi, della copiosissima letteratura fantascientifica, cui il libro di Dan Brown è nettamente inferiore, pur avendo avuto, sulla base dei precedenti successi dell’Autore, una maggiore eco mediatica rispetto a qualunque altro libro.
Fred Hoyle e John Elliot, in A come Andromeda, scritto nel 1962, hanno ipotizzato la costruzione, sulla base di istruzioni aliene, di un cervello elettronico avanzatissimo in grado di riprodurre l’uomo, di appropriarsi dell’atto creativo. “Da dove veniamo?”, “Dove andiamo?”. Isaac Asimov, nel 1950, con i racconti da cui fu tratto il film Io, Robot, ha spalancato la finestra dell’immaginazione letteraria verso un futuro dominato da VIKI (Virtual Interactive Kinetik Intelligence), un sistema computerizzato che gestisce il mondo al meglio, affinché l’uomo sia felice, ma che, poi, si rende conto che la felicità dell’uomo può essere ottenuta solo rendendolo prigioniero, poiché è l’uomo il primo nemico di se stesso. Ecco che, il computer, programmato per raggiungere un certo scopo, ossia la felicità dell’uomo, non si cura del modo in cui lo raggiunge. E’ un po’ come la vecchia storia dei desideri manifestati al Genio della Lampada, per esaudire i quali il Genio non bada alle conseguenze negative: se un avido chiede la ricchezza, è possibile che il Genio gli faccia ereditare una forte somma, il che significa che le radici della sua ricchezza si impianteranno sulla tristezza, sul dolore per la perdita di una persona cara. L’Intelligenza Artificiale è pura logica; logica priva di coscienza, di sentimento, di anima, benché si stia cercando di fornirgliene una. Questo argomento, nel Duemila, è una classica scoperta dell’acqua calda.
Arthur C. Clarke, autore del romanzo da cui fu tratto il film 2001 Odissea nello Spazio, parlando delle macchine che avrebbero, forse, dominato l’umanità, auspicava sempre che l’uomo mantenesse la capacità di staccare loro la spina. In una frase, con grande eleganza e stile accattivante, ha lanciato un messaggio vicino a quello di Dan Brown. Peccato che quest’ultimo non l’abbia saputo fare con altrettanta capacità di sintesi.
La storia di Origin è riassumibile in un paio di frasi. Intorno c’è un mondo di parole finalizzato non già a trasportare il lettore all’interno di una storia, ma a riempire gli spazi vuoti con dosi calcolate di un mix degli argomenti tipici richiesti, oggi, dagli editori; richiesti per vendere e non per fare letteratura, attenzione: un triangolo amoroso composto da due fidanzati in crisi e da un terzo che sa di non poter subentrare e, per questo, resta in silenzio; un’unione omosessuale, che oggi sembra irrinunciabile in qualunque libro, in qualunque film, in qualunque serie TV, perché va di moda, anche se, purtroppo, la moda svilisce sempre il sentimento rendendolo commerciale; un attacco non troppo misurato alle religioni, soprattutto a quella cattolica, perché, si sa, il Vaticano racchiude segreti e solletica fantasie; ed un bel po’ di azioni temerarie, prove fisiche straordinarie e fughe spettacolari messe in atto da una donna con abito attillato e tacchi a spillo e da un uomo, il so-tutto-io Robert Langdon, il quale rivela doti fisiche sovrannaturali, vincendo persino la forza della gravità. Poi, ovviamente, il libro è incardinato sulla gigantesca caccia al tesoro, con relativo dribblaggio tra varie opere d’arte, tipica di quasi tutti i romanzi di Dan Brown. Sotto quest’ultimo profilo, Dan Brown ha fatto scuola, ha creato un genere, lo riconosco con deferenza ed ammirazione; un genere intrigante, divertente, che accosta la cultura artistica, storica e filosofica alla fantasia. Tutti noi scrittori vorremmo riuscire a buttare giù una remunerativa “danbrownata” credibile. Pochi ci riescono, ovviamente, visto che non è affatto facile, sebbene la cosa lasci indifferente l’industria della carta stampata. Nell’era-dopo-Il-Codice-Da-Vinci, gli scaffali delle librerie pullulano comunque di voluminosi tomi che, nel titolo, contengono almeno una delle seguenti parole: enigma, codice, mistero, arcano. Si vendono anche solo per quello; se, poi, non piacciono, non è un problema. L’importante è che siano stati venduti e che l’editore abbia guadagnato bene. Lontani i tempi degli editori che scovavano talenti e puntavano sull’arte.
Un buon libro, in realtà, dovrebbe avere qualcosa in più di una storia con gli effetti speciali. Dovrebbe avere stile, raffinatezza linguistica, schema narrativo. Lo stile di Origin, invece, è ormai orientato, come è stato anche per Inferno, quasi totalmente verso la futura sceneggiatura. Non c’è eleganza stilistica, non c’è ricercatezza espressiva. I romanzi di Dan Brown, dopo il successo de Il Codice Da Vinci, sembrano costruiti solo per invogliare il produttore cinematografico di turno a realizzare un film, rendendogli facile il compito di vedere, in quella storia, scene, effetti speciali e, soprattutto, il simbolo del dollaro. Ed al lettore cosa resta? Un film da cassetta descritto in un tomo che è troppo alto per fermare un tavolino traballante e troppo basso per essere usato come scaletta da biblioteca. Quando mi verrà in mente cosa farci per usarlo al meglio, lo scriverò. Intanto sconsiglio caldamente di acquistarlo.
di Raffaella Bonsignori
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